A tredici anni dalla caduta di Gheddafi, la Libia resta un paese segnato dall’instabilità e dalla frammentazione politica. Nonostante numerosi tentativi di mediazione, il conflitto continua a essere alimentato da rivalità interne e ingerenze esterne, mentre la presenza di risorse naturali come il petrolio aggiunge ulteriori complessità alla crisi. Per approfondire il tema, intervistiamo il professor Tudor Petcu, docente di Filosofia delle Religioni all’Università di Bucarest e membro del Consiglio Direttivo dell’Associazione Dimitrie Cantemir. È anche professore presso il Liceo Internazionale King George di Bucarest e collaboratore dell’Università degli Studi di Milano.
Professor Petcu, quali sono le cause principali che impediscono alla Libia di raggiungere una stabilità politica duratura?
«La Libia è un paese costantemente esposto a conflitti civili e ciò è dovuto principalmente alla sua eredità storica secolare. Ci riferiamo all’assuefazione del popolo libico alla tirannia della dittatura, alla sensibilità ai confini a cui essa predispone e, non ultimi, ai pregiudizi culturali che caratterizzano la mentalità sociale in Libia nei confronti della civiltà occidentale. La cultura dell’apertura e della democrazia sembra un paradigma difficile da realizzare per un popolo dilaniato dalla schiavitù della distruzione politica».
Qual è il ruolo delle potenze straniere nella crisi libica e come hanno influenzato l’evoluzione del conflitto?
«Questa domanda richiederebbe un libro come risposta, ma mi limiterò a un breve intervento, considerando che la presidenza di Barack Obama negli USA ha eliminato Gheddafi dalla scena politica nel 2011. Ovviamente, la Primavera Araba del 2011 avrebbe dovuto segnare la scomparsa della barbarie dittatoriale, ma la domanda che sorge spontanea è la seguente: si può davvero parlare di un’era post-Gheddafi in Libia? Le cose non sembrano affatto aver preso un percorso normale in questo Paese così provato dagli oscuri capricci della storia, e il problema principale resta la mancanza di accesso da parte della popolazione ad estesi canali di comunicazione. Non so esattamente cosa potrebbero fare le potenze occidentali in Libia per il momento, ma so per certo che la loro assenza porterebbe a una morbosa amplificazione del conflitto, in nessun caso al suo appiattimento».
Quanto ha influito la presenza di risorse come il petrolio nelle dinamiche del conflitto?
«Certamente molto, ma sembra che il petrolio sia una posta estremamente importante nel caso dell’intero Medio Oriente. Mi chiedo, però, se il petrolio non rappresenti necessariamente il pretesto delle potenze occidentali per essere presenti in Libia, così come in altre aree di conflitto, tenendo conto del fatto che esiste un conflitto permanente tra le popolazioni del Medio Oriente che minaccia le fondamenta, compresa la stabilità euro-atlantica».
Cosa pensa della divisione tra il governo di Tripoli e quello di Tobruk? Esiste una via per unificare il Paese?
«Purtroppo, non credo che la Libia verrà mai riunificata. Piuttosto, credo in un patto diplomatico che tuteli il più possibile la stabilità regionale tra i due Paesi. In ogni caso, se si parlasse anche solo di una riunificazione concreta della Libia, sarebbero necessari negoziati internazionali fermi, ai quali la Cina dovrà necessariamente prendere parte, e l’Occidente dovrà rispondere con una certa tattica strategica»
Quanto hanno inciso le rivalità tribali e locali nel complicare il processo di ricostruzione? »Ovviamente in maniera decisiva, ma come avrebbe potuto essere altrimenti, tenendo conto della grave mancanza di educazione e pedagogia della libertà in uno spazio fondato innanzitutto dall’interno? Se si persegue la reale democratizzazione della Libia e di qualsiasi altro Paese di quest’area geografica, è necessario un solido umanesimo assunto dalla coscienza occidentale, che deve superare anche le barriere strategiche e militari».
Perché i tentativi di mediazione internazionale, come quelli delle Nazioni Unite, non hanno avuto successo?
«Credo che la risposta a questa domanda sia già stata data negli interventi precedenti, ma aggiungerei un ulteriore aspetto: la Libia gode di un’attenzione speciale e amichevole da parte della Russia, il che rende ancora più difficile il ruolo delle Nazioni Unite. Proprio per questo, al di là della strategia militare, è particolarmente necessaria una campagna umanitaria».
Che ruolo gioca la religione nella crisi libica? Ci sono tensioni religiose che influiscono sul conflitto?
«L’Islam ha un ruolo speciale in quest’area geografica, la coscienza religiosa è estremamente forte, aspetto di cui bisogna tenere conto. Proprio per questo, oltre al negoziato militare e politico, servirebbe anche una realtà parallela, cioè un dialogo interreligioso ben gestito dalle principali denominazioni cristiane in Occidente. Certo, la religione non può mai sostituirsi alle negoziazioni e alle strategie politiche, ma ha l’obbligo morale di mettersi al servizio dell’imperativo della pace. Proprio per questo credo che l’Occidente cristiano, soprattutto quello cattolico romano, potrebbe sensibilizzare con una certa consapevolezza globale la componente islamica della Libia attraverso un dialogo ben consolidato».
Come vede il futuro della Libia nel contesto geopolitico del Nord Africa e del Mediterraneo?
«È molto difficile dirlo, dipende molto dalla posta strategica futura e non bisogna dimenticare il fatto che l’Egitto è la principale potenza del Nord Africa e, a un certo punto, potrebbe rappresentare il giusto collegamento tra la Libia e le potenze occidentali».
Quali lezioni si possono trarre dalla crisi libica per altre transizioni politiche nel mondo arabo?
«Molte, ma ne elenco tre:
1. La responsabilità morale di lottare contro l’indifferenza;
2. La necessità per l’Occidente di ripensare il proprio ruolo nel panorama dei conflitti in Oriente;
3. Il consolidamento di un prolifico dialogo tra Occidente e Vicino Oriente, a condizione che l’Occidente tratti gli impulsi contrastanti dell’Oriente con la massima delicatezza diplomatica».
Che impatto ha avuto la crisi libica sulle migrazioni verso l’Europa e quali misure dovrebbero adottare i Paesi europei?
«L’impatto è stato forte, ma le principali potenze europee devono ancora imparare la lezione dell’inclusione sociale, basata su norme e valori di rispetto reciproco. Altrimenti, ci troveremo ad affrontare le frustrazioni di questi immigrati, che influenzeranno sempre più l’ordine naturale e l’identità dell’organizzazione sociale. Credo in un progetto di multiculturalismo dotato di significato e definito dall’etica della ragione sociale. Mi rifiuto assolutamente di essere d’accordo con l’ex primo ministro britannico David Cameron, il quale, nel 2010, sostenne che il multiculturalismo si è rivelato un progetto fallito in Europa».
Libia, Petcu: la crisi senza fine causata dalla frammentazione politica
Per approfondire il tema abbiamo intervistato un esperto sulle prospettive future del paese nord africano
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