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Le rivolte in Iran, analisi del presente, del passato e del futuro di un popolo

A poche settimane dalla morte della giovane curda iraniana Mahsa Amini, fermata dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo lasciando intravedere una ciocca di capelli -, continuano in Iran ed oltre i suoi confini le manifestazioni di protesta in solidarietà delle donne iraniane che subiscono minacce, percosse e arresti arbitrari per analoghi motivi. A Udine, solo per citare un esempio, sabato 15 ottobre numerose associazioni si sono date appuntamento per un sit-in di solidarietà contraddistinto dallo slogan in lingua farsi “Jin, Jiyan, Azadi”, ossia “Donna, Vita, Libertà”. Non sarà sfuggito ai più il commovente taglio di capelli da parte di molte donne, iraniane e straniere, famose e non. Anche il conduttore RAI Ossini l’ha fatto, in diretta, sottolineando che i problemi delle donne riguardano anche gli uomini. Un gesto simbolico di indignazione, in ricordo di Amina e delle altre giovani uccise dalla repressione governativa, un gesto che affonda le radici nella tradizione iraniana: le donne si tagliano i capelli in caso di lutto, per dimostrare dolore e rabbia per la perdita di un affetto. Ed è un’azione forte, perché i capelli nelle società mediorientali – così come in quelle mediterranee -, sono simbolo di femminilità e seduzione. Ci si priva dunque di bellezza per dimostrare la furia contro chi quella bellezza la vuole castrare; contro chi copre la donna assegnandole il ruolo di perturbatrice della società; contro chi ha paura dei cambiamenti e pensa di poterli affrontare riducendo ulteriormente i diritti delle donne.

In un’intervista a Vanity Fair,[1] la scrittrice iraniana Bita Malakuti, residente all’estero, ha condensato in poche parole la situazione delle donne in Iran: “non hanno il diritto di scegliere il proprio abbigliamento. Devono indossare il foulard. Le donne sposate devono chiedere il permesso al marito per lavorare, viaggiare e persino ottenere un passaporto.  Gli uomini hanno un assoluto diritto alla custodia dei figli in caso di divorzio. L’eredità riconosciuta alle donne ammonta alla metà di quella degli uomini. Non hanno il diritto di divorziare, se non in circostanze molto particolari. Da poco tempo, le donne non hanno nemmeno più il diritto di sottoporre a screening il feto nel loro ventre”.

L’Iran è una Repubblica islamica dal 1979, ovvero uno Stato confessionale a larga maggioranza sciita. Lo sciismo è una corrente dell’islam che rappresenta il 10-15% dei fedeli musulmani nel mondo e si distanzia dal sunnismo, la corrente islamica maggioritaria, per una gerarchizzazione più netta delle guide spiriturali; per il culto di Alì ibn Abì Tàlib, genero e cugino del profeta Muhammad, da cui discesero i dodici imàm capi politico-religiosi della comunità, per il culto dei martiri Hasan e Husayn, figli di Alì; per il rito di Ashùra (la radice significa dieci, poiché il martirio ebbe luogo il 10 del mese islamico di Muharram) che ricorda la battaglia di Karbalà (Iraq attuale) del lontano 680 d.C., in cui i sunniti uccisero Husayn e fecero schiave le donne alidi portandole a Damasco, sede del califfato. Fu questo il momento di rottura definitiva tra sunniti e sciiti, ed ogni anno gli sciiti nel mondo lo ricordano con grandi manifestazioni di lutto e rappresentazioni sacre di forte impatto. Gli sciiti, inoltre, credono nel ritorno del mahdi (il ben guidato), ossia un personaggio che alla fine dei tempi restaurerà la vera fede e la giustizia, e che loro identificano con il dodicesimo imam, venerato e scomparso misteriosamente nel IX secolo.

Lo sciismo è divenuto dottrina ufficiale della Persia nel XVI secolo, in contrapposizione al sunnismo dei Turchi Ottomani. Fu la dinastia turca dei Safavidi a rendere la dottrina sciita pilastro del costituente Stato persiano. Il ruolo della casta religiosa si è rafforzato nei secoli fino al periodo della dinastia Pahlavi, che ha guidato l’Iran (fino al 1935 denominato Persia) dal 1925 al 1979. Reza Pahlavi era un militare. Con il colpo di stato del 1925 introdusse nel Paese, dominato ancora da strutture feudali, riforme improntate alla modernità e allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. Le potenze straniere ebbero un ruolo determinante nella politica iraniana, soprattutto i Russi, gli Inglesi e gli Americani. Purtroppo, il regime ereditato dal nuovo shah (re, in lingua farsi) Mohammad Reza Pahlavi non risolse i problemi delle masse di contadini iraniani poveri e deprivati, così il loro sentimento di scontento trovò un solido alleato nel clero sciita, anch’esso ignorato dalle classi dominanti laiche. Le donne sotto lo shah guadagnarono il diritto di voto (1963), la limitazione della poligamia (1967), l’innalzamento dell’età matrimoniale dai 15 ai 18 anni (1973), la regolamentazione dell’aborto (1977). La prima donna ministro fu designata nel 1968, otto anni prima dell’italiana Tina Anselmi.

La monarchia di Pahlavi, tuttavia, non fu certo illuminata, anzi si macchiò di violenze e arresti di oppositori politici, di sogni d’espansione e corsa agli armamenti, di sprechi e lusso esibito di fronte alla povertà culturale ed economica della maggioranza degli iraniani.

Così anche le donne furono artefici della Rivoluzione religiosa e della nuova Repubblica d’Iran, nella speranza di un nuovo corso storico più giusto e rispettoso delle tradizioni. Non si attendevano certo le imposizioni restrittive che Khomeini avrebbe nell’immediatezza del suo ritorno in Iran decretato: niente più sport per le donne, velo obbligatorio per uscire e lavorare,[2] ripristino del Codice di famiglia islamico (ivi compresa la poligamia ed il matrimonio temporaneo),[3] divieto di usare cosmetici e di sorridere per strada.

La donna tornò ad essere fitna. Questa parola araba, presente nel Corano, significa tribolazione, disordine, sedizione che porta alla divisione della comunità. È stata applicata a dissensi teologici e guerre civili interni all’islam delle origini, e con essa si è passati a designare anche lo scandalo provocato dalle donne con il loro comportamento capace di disgregare la umma (comunità) islamica. La donna è fitna solo per il fatto di mostrare il suo corpo, di far sentire la sua voce, di attirare l’attenzione con i tacchi delle sue scarpe, di accennare un sorriso o di rivolgere uno sguardo diretto ad un passante: la soluzione è coprirla. Il controllo della donna consente di mantenere la società così com’è, di protrarre il dominio maschile senza alterare le logiche patriarcali messe in discussione dalla modernità e dagli inevitabili influssi occidentali che internet e le parabole hanno contribuito a diffondere.

Lo stile di vita occidentale è un sogno di libertà. Le nuove generazioni scalpitano.

Ciò non significa che la religione perderà la sua importanza nel cuore di tutti gli iraniani e le iraniane, vuol dire però che ciascuno potrà sperimentare la libertà di coscienza ed espressioe, il senso del limite, la fallibilità e anche la difficoltà di avere di fronte a sé tante opzioni. In poche parole, di vivere.

La pudicizia e la purezza del cuore non sono sinonimi di chador o hijàb. Dio è nel cuore delle persone, nei loro sguardi e nei loro sorrisi, non in un pezzo di stoffa.

[1]https://www.vanityfair.it/article/iran-bita-malakutitagliare-i-capelli-e-un-gesto-di-lutto-e-di-rabbia (2/10/2022)

[2]Suggerisco un video di un minuto sullo stile della donna in Iran nelle decadi dal 1910 al 2010: https://www.lifegate.it/100-anni-di-iran

[3]Chiamato in arabo mut’a, o “matrimonio di godimento” (in farsi, sigheh), il matrimonio temporaneo è un istituto in uso presso gli sciiti che dà luogo ad un contratto matrimoniale a scadenza prefissata, che può durare pochi minuti come svariati anni. Abolito dallo shah Pahlavi, fu presto ristabilito dall’ayatollah Khomeini.

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