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“Il mio nome è Meriam”. IV capitolo. Il parto in catene e la nascita di Maya

Rabbia, solitudine, paura… Meriam non avrebbe
mai immaginato di provare certe emozioni. Di sicuro
non durante il parto che, nei sogni di ogni donna,
dovrebbe essere un momento doloroso, ma pieno di
magia. Un’anticipazione di futuro, un dono di Dio.
Meriam, invece, aveva freddo. E si sentiva sola
come non le era mai successo in vita sua.
Quando, nel cuore della notte, si erano rotte le acque,
l’avevano trasferita in una camerata grande e
vuota, nella quale i suoi lamenti risuonavano con un
eco sinistro. Al suo fianco non c’era nessuno, né Daniel,
che la legge coranica considerava alla stregua
di un estraneo, né gli avvocati. E lei aveva paura, te-
meva che qualcosa andasse storto.
Tuttavia, neanche in quegli interminabili attimi
di angoscia, nella spoglia e tetra ala ospedaliera del
carcere di Omdurman, stesa sulla barella su cui sta-
vano consumandosi gli ultimi minuti del travaglio,
aveva smarrito la fede: il Signore era al suo fianco,
l’avrebbe protetta e aiutata a mettere al mondo il suo
bambino. Le catene, strette alle caviglie, le impedivano
di allargare le gambe, o quanto meno ne limitavano
l’apertura. Ma la piccola sarebbe nata e sarebbe
stata la prova più evidente dell’amore di Dio.
Quando la testina cominciò a spuntare si sentì lacerare.
Provò un dolore terribile, fu sul punto di svenire.
Eppure stringeva i denti e spingeva, e più spingeva
più sentiva che il miracolo della vita si stava compiendo.
Durò un attimo. O un’eternità.
Fatto sta che quando la levatrice la prese in braccio
e la piccola emise il primo vagito, Meriam comprese
che tutta la sofferenza che aveva provato aveva un senso,
e che la vita avrebbe sempre avuto la meglio sulla morte.
La guardava ed era così debole e stanca che non aveva
quasi la forza per allungare la mano e reclamarla a sé.
O, forse, era paura. Temeva che glie l’avrebbero impedito,
che se la sarebbero por-tata via e che… non successe niente
di tutto questo: la levatrice gliela passò e lei la strinse tra
le braccia con tutto l’amore e la forza che le restavano.
Quando Maya si attaccò al seno, Meriam dimenticò ogni
timore e fu investita da un’emozione travolgente, che illuminò
gli angoli bui del suo destino: nella notte tra il 26 e il 27
maggio non solo era nata la sua bambina, ma lei stessa era rinata.

* * *

Erano le sette e qualche minuto e la giornata era iniziata come
sempre in modo frenetico. Poi il beep del  telefono e il messaggio
che Khalid mi aveva inviato tramite WhatsApp cristallizzarono
il tempo, fissando quell’istante in modo indelebile nella mia
memoria. Quattro ore prima, Meriam aveva dato alla luce Maya,
una bambina di poco più di tre chili con i capelli riccioli e neri.

La notizia mi travolse e, per la prima volta da quando mi ero
imbattuta nella sua storia, piansi; erano lacrime di gioia.
Chiamai Khalid e gli avvocati, ma nessuno rispose.
Poi, finalmente, Mohaned richiamò. «Scusami,» fece con
una voce stanca, agitata e felice «è stata una nottataccia…
A proposito, sono qui con Daniel, stiamo andando
in ospedale e…»
Non ci pensai due volte: anche se non ci avevo mai parlato
direttamente, ma sempre per interposta persona,
lo interruppi e gli chiesi di passarmelo.
Non vedevo l’ora di sentire la sua felicità, di condividere
la mia.

La sua voce, però, non era come mi aspettavo. Era
seria, profonda, quasi impostata. Daniel sapeva chi
ero e mi ringraziò per quanto stavamo facendo per
la sua famiglia. Era gentile eppure guardingo, molto

formale. Io , invece, non riuscivo a trattenermi:
«Sono contenta per voi, soprattutto per Meriam: ora
ha un motivo in più per tenere duro! Vedrai, tra poco
potrete tornare a casa e ricominciare una nuova vita…».
Daniel tacque. Dopodiché riprese a parlare, ma con
un tono diverso, incrinato dall’emozione. Mi resi conto che
le sue difese erano crollate, che stava piangendo.
Mi disse che era felice per la nascita della figlia, ma, al tempo
stesso, provava un dolore tremendo per non essere stato
presente al momento del parto e non averla vista nascere.
Che era arrabbiato con l’ambasciata americana perché,
pur avendo dimostrato in ogni modo che Martin fosse suo
figlio, perciò un cittadino statunitense, pur avendo
consegnato certificati di nascita e matrimonio, esami del
dna e via dicendo, i funzionari non avevano fatto
niente se non prendere tempo. Poi, aggiunse, era
preoccupato per Meriam, si chiedeva come potesse
sopportare un trattamento del genere, dove potesse
trovare le energie fisiche e mentali per farlo.
Parlò a lungo, con sincerità e trasporto. Lo ascoltai
come si fa con una persona che conosci bene, un
amico o un famigliare. E mi resi conto che il mio
impegno verso lui e Meriam non era più solo una
questione di politica o di fede, ma di cuore. E che ero
terribilmente coinvolta.
Prima di salutarmi, mi chiese di ringraziare tutte
le associazioni e le istituzioni che le avevano partecipato
alla mobilitazione e stavano battendosi per lui e la moglie:
«Vorrei ringraziarli uno per uno» disse. «La loro solidarietà
ci è stata di grande aiuto.»
Ci lasciammo con l’accordo di risentirci in serata,
così mi avrebbe raccontato come stavano le sue donne
e il piccolo Martin, che non vedeva da cinque giorni.
Purtroppo, quando lo richiamai, mi raccontò che non
gli avevano dato il permesso di incontrarli. Meriam

era nella clinica del carcere per degli accertamenti e
avrebbe potuto incontrarla soltanto il giorno dopo.
Era triste, deluso.
Lo rassicurai, gli dissi che doveva essere ottimista
e doveva farlo per Meriam, Martin e per la piccola
Maya.
Per il significato che la sua nascita aveva assunto.
Per la speranza che rappresentava.
Più che arrabbiato, era preoccupato: Meriam era
molto provata. Le catene la tormentavano giorno e
notte, e la direttrice del carcere non aveva permesso
a un ginecologo di visitarla e di accertare l’entità
delle complicazioni che avevano accompagnato la
gravidanza. Però la conosceva, non avrebbe mai ri-
trattato, non avrebbe mai rinunciato a difendere la
propria fede: «E io non le chiederei mai di farlo.
Anche se questo significa rinunciare ad averla con
me, rischiare di perderla per sempre».

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