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Il Sudan e il futuro della nuova democrazia apparentemente difesa dall’esercito

Più di cento persone sono state uccise lunedì dall’esercito sudanese nel corso di una brutale repressione. Le richieste civili di avanzare verso un regime democratico dopo il rovesciamento del dittatore Omar al-Bashir ad aprile sono sempre più lontane dal realizzarsi.

Come abbiamo analizzato in Notas, per quanto i media e i governi occidentali abbiano cercato di presentarcela così, la caduta di al-Bashir è stata più una manovra di palazzo che non una “rivoluzione” o una nuova “primavera araba”. La serie di eventi successivi all’11 aprile lo dimostra.

Lunedì scorso c’è stato un nuovo momento di tensione quando le Forze Armate hanno sparato su chi era accampato da mesi fuori dal Quartier Generale dell’Esercito nella capitale Khartoum. Nonostante fosse cominciata prima del cambio di governo, la prova di forza è continuata per pretendere che le richieste venissero soddisfatte.

Un centinaio di manifestanti sono rimasti uccisi e migliaia feriti come conseguenza della repressione.

Va fatto notare che, da diverse settimane a questa parte, il Consiglio Militare Transitorio (CMT) al potere e l’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento, che riunisce forze sociali e politiche, stanno cercando un accordo per formare un governo di transizione misto che includa anche civili.

Tuttavia, la mancanza di intesa ha fatto sì che le manifestazioni non si fermassero e lo scorso venerdì uno sciopero generale ha paralizzato il paese, generando malcontento nello Stato Maggiore

Fine dei negoziati ed elezioni

Dopo il massacro, il presidente del CMT, Abdul Fatah al-Burhan, ha riferito che le elezioni generali si svolgeranno entro i prossimi nove mesi. Ha anche definito concluso il ciclo di dialogo con i civili.

«Annuncio la sospensione dei negoziati con le forze dell’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento, così come lo svolgimento di elezioni generali entro un periodo non superiore a nove mesi da oggi», ha dichiarato in un comunicato.

Ha anche sottolineato che l’attuale governo di transizione continuerà nel proprio compito di «destituire e mettere davanti alle proprie responsabilità figure di spicco della precedente amministrazione coinvolte nella corruzione» e creerà «le condizioni per lo svolgimento delle elezioni in modo che il popolo sudanese possa scegliere liberamente il proprio governo». Alla fine, ha assicurato che il CMT«trasferirà il potere a chiunque venga eletto dal popolo».

Eppure, ci sono buone ragioni per guardare a queste promesse con sospetto, visto che l’attuale giunta militare è lontana dal rappresentare una rottura con il precedente regime che ha governato per 30 anni.

In effetti, il numero due del golpe è Muhammad Hamdán Dagolo, capo di una forza paramilitare fedele ad al-Bashir accusata di aver commesso crimini contro l’umanità nel Darfur occidentale. È proprio questo alto comandante ad aver detto, poche settimane dopo il colpo di stato e davanti al protrarsi delle proteste, che la sua «pazienza» verso la politica «ha un limite».

A questo si aggiunge il precedente egiziano, nel quale la caduta del dittatore Hosni Mubarak nel 2011 si è trasformata in un processo elettorale in cui la popolazione ha consacrato il partito islamista dei Fratelli Musulmani. Tuttavia, nel 2013 le forze armate hanno deposto il presidente Mohamed Morsi e ripristinato un governo di tipo militare che dura ancora oggi.

Il sostegno saudita

Nonostante ci siano state forti proteste popolari sulle condizioni di vita culminate con l’uscita di scena di al-Bashir, il colpo di stato ha rappresentato anche una risposta a interessi geopolitici.

Durante gli ultimi anni del suo governo, l’ex-dittatore si era avvicinato all’Arabia Saudita alla ricerca di accordi commerciali per aiutare l’economia sudanese in crisi. Ciò ha portato il governo di Khartoum a prendere decisioni discutibili, come il pieno coinvolgimento nella guerra in Yemen (trasformando i propri soldati in carne da cannone) e rompendo i rapporti con un alleato storico come l’Iran.

In risposta, nel 2015 Riad ha firmato un accordo per investire 6 miliardi di dollari nel settore agricolo e un altro nel 2016 per 11 miliardi nel settore alimentare e della sicurezza.

Tuttavia, dopo la rottura tra la monarchia saudita e il Qatar nel 2017, al-Bashir ha iniziato a cambiare la sua politica internazionale. Sia i discutibili rapporti di Khartoum con i Fratelli Musulmani (organizzazione politica islamica con influenza in tutta la regione e alleato di Doha) che le immagini della guerra yemenita hanno cominciato ad avere effetto.

Nel marzo 2018, Sudan e Qatar hanno firmato un accordo da 4 miliardi di dollari per la gestione del porto di Suakin sul Mar Rosso.

In precedenza, nel dicembre 2017 turchi e sudanesi avevano firmato un accordo per il ripristino di parte di quello stesso porto e per la costruzione di un bacino per navi civili e militari. Inoltre, la Turchia ha accettato di investire 100 milioni di dollari nelle esplorazioni petrolifere.

Tutti questi accordi sono venuti meno con il cambio di regime. Una delle prime decisioni del nuovo governo è stata la ratifica del mantenimento delle truppe nello Yemen, mentre Riad e Abu Dhabi hanno sborsato finanziamenti per 3 miliardi di dollari.

Gli unici paesi che si affacciano sul Mar Rosso (passaggio commerciale chiave verso il Mar Mediterraneo attraverso il Canale di Suez) in cui i sauditi non avevano influenza diretta con i porti o con buone relazioni con i loro governi erano lo Yemen e il Sudan.

In questo contesto, i nuovi comandanti militari sono convenientemente affini agli interessi dell’Arabia Saudita in tutta la regione.

Condiviso sito Notas

Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress

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