È notizia di pochi giorni fa che le truppe del governo golpista del Mali sono state pesantemente sconfitte dai guerriglieri tuareg ai confini dell’Algeria. Una notizia come tante nella tragica normalità del Sahel. Il solo elemento di novità, che l’ha portata alla ribalta della cronaca, è stata la disfatta subita in tale occasione dai mercenari russi che prestavano qui servizio a sostegno delle truppe governative. Una smentita, certo, inattesa della fama che accompagna questi professionisti della guerra. Ma al di là di tale sorpresa, l’avvenimento è rientrato nei ranghi drammatici delle guerre e del terrorismo che insanguinano questi Paesi, succubi di giunte militari spietate che operano nel totale disprezzo dei più elementari diritti umani. Cosicché, l’episodio in sé ha suscitato solo la curiosità delle cronache, facendo passare in secondo piano altri aspetti non meno inquietanti, non tanto per il presente dell’Africa, già complicato, quanto per il futuro che lascia intravedere all’orizzonte del continente.
La collaborazione militare russa, con l’invio di mercenari addestrati per combattere in qualsiasi situazione di guerra, è pagata a caro prezzo dalle giunte militari al potere nel Sahel. Le quali non si fanno scrupolo di concedere, in cambio dell’aiuto di queste milizie armate, lo sfruttamento delle ricche miniere locali, che sono il patrimonio principale sul quale questi Paesi possono contare per avviare il proprio sviluppo. Dimostrando, così, l’attitudine a adottare una prassi neocoloniale all’inverso, eguale e contraria a quella imposta loro dal colonialismo d’altri tempi. Tanto odiata, e non meno pericolosa. Ma, evidentemente, assimilata dal costume politico.
Non è solo il pagamento delle milizie mercenarie a trasmettere questa impressione dei leader africani, se così si possono chiamare quelli in uniforme. Il Ghana, antica sede della tratta degli schiavi diventata oggi una repubblica presidenziale democratica, riceve ogni settimana dal resto del mondo circa 15 milioni di abiti usati che getta in enormi discariche aperte, quando non brucia nelle distese di terreno attigue alle baraccopoli qui sorte, noncurante della catastrofe ambientale incombente.
Come riportato da alcuni servizi giornalistici, gli scarti di abbigliamento hanno invaso anche il mare intorno, tanto che le reti dei pescatori tirano su più abiti usati che pesci. Non avendo i mezzi per provvedere al loro corretto smaltimento e riciclo – che farebbe diventare tali scarti una risorsa economica – il Ghana concede il proprio territorio allo sfruttamento indiscriminato,ricavandone un profitto immediato che non compensa i danni ambientali subiti, mentre ipoteca il futuro, in termini di salute,della sua popolazione esponendo la loro esistenza a un inquinamento dagli effetti incalcolabili. Un segnale eloquente, anch’esso, di un neocolonialismo all’inverso, che fa considerarelegittima una prassi analoga a quella, tanto deprecata, che si è patita in passato, fino a replicarla di propria iniziativa. Come se stralci di una lontana memoria, che non si riesce a smaltire,continuassero indisturbati a infiltrarsi nella mentalità del Paese, simili agli abiti usati che affiorano a brandelli dalla sabbia e dal mare inquinando inesorabilmente terra e aria.