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“Il mio nome è Meriam”. Capitolo 3. Il carcere e la gravidanza

La valigetta morbida di pelle marrone, che la famiglia
gli aveva regalato il giorno della laurea, era colma di
atti legali, giudizi espressi dalla corte costituzionale
e verbali di vecchi procedimenti che Mohamed Abdelnabi
conosceva a memoria. Aveva letto e riletto
ogni foglio con un’attenzione quasi maniacale e non
aveva alcun dubbio sulla fondatezza legale delle sue
argomentazioni. Il problema era un altro: il caso di
Meriam travalicava l’ambito della pura e semplice
giurisprudenza e aveva a che fare con la miopia e
l’integralismo di un giudice che si era spinto ben oltre
il suo ufficio. Per questo, dopo la sentenza, lui e
gli altri avvocati della difesa non si erano abbattuti,
ma, al contrario, avevano dichiarato di guardare con
«estrema fiducia» ai passaggi successivi. Cominciarono
a parlare esplicitamente di un processo d’appello
e si dicevano convinti del risultato: in secondo
grado Meriam avrebbe avuto la meglio e sarebbe
stata scagionata da ogni accusa. Era qualcosa di più
di una semplice speranza, visto che la Costituzione
sudanese garantiva esplicitamente la conversione
religiosa senza restrizioni. Male che andasse, se in
secondo grado fosse stata confermata la sentenza,
avrebbero avuto a disposizione altri due anni per affermare
quel diritto: per tutelare il nascituro, l’esecuzione
non poteva essere eseguita prima che la madre
avesse partorito e finito di allattare.
Meriam trascorreva le giornate nella cella, una
stanza con tre brande e le pareti scrostate che condivideva
con altre detenute. La luce filtrava da una finestrella
con le sbarre e l’aria era mossa da un vecchio
ventilatore. Passava gran parte del tempo sul letto,
abbracciata a Martin. Si alzava il minimo indispensabile
e camminava con difficoltà. Aveva le gambe
gonfie e le caviglie escoriate, in più era all’ottavo
mese di gravidanza: se il travaglio che aveva accompagnato
la nascita del primogenito era stato lungo e
complicato, questo avrebbe rischiato di essere ancora
più difficile. Inoltre le possibilità che sorgesse qualche
complicazione erano alte, per non dire certe. Le
altre detenute la evitavano o la prendevano in giro,
e una, in particolare, faceva di tutto per renderle la
vita impossibile, mentre le guardie facevano finta di
niente o si univano alla persecuzione, sottoponendola
a maltrattamenti fisici e psicologici insopportabili.
I suoi avvocati avevano chiesto che fosse trasferita
e tenuta sotto sorveglianza in un ospedale o in una
clinica privata, una sorta di arresto domiciliare temporaneo,
giusto per la durata del parto. La direzione
del carcere, però, aveva risposto che avrebbe acconsentito
solo nel caso si fosse reso necessario un cesareo.
Non c’erano alternative, la piccola sarebbe nata
in un luogo sporco, triste e malsano, e in un clima
a dir poco ostile. Quello che avrebbe dovuto essere
uno dei momenti più belli della sua esistenza, la nascita
della seconda figlia, rischiava di trasformarsi
nel suo opposto, in un momento di solitudine e disperazione.
Di morte.

* * *
Nonostante la convinzione che il giudizio finale
sul caso di Meriam potesse essere affidato alla corte
d’appello, che avrebbe scongiurato la pena capitale,
fosse sempre più diffusa e concreta, l’intensità della
mobilitazione non si era smorzata: abbassare la guardia
sarebbe stato un errore imperdonabile.
Per tenere alta l’attenzione dei media e dell’opinione
pubblica proposi ad alcune associazioni di sottoscrivere
e inviare una lettera aperta al presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano.
Tutti insieme, Italians for Darfur, People4Sudan,
Articolo 21, i missionari salesiani di El Obeid e i rifugiati
sudanesi in Italia, chiedemmo che il nostro
paese facesse maggiori pressioni sul governo del Sudan
e reclamasse un atto di clemenza nei confronti
della giovane che stava per partorire. Eravamo convinti
che fosse importante continuare a sollecitare le
autorità a Khartoum, magari proprio con un intervento
diretto del presidente italiano rivolto al suo
omologo sudanese, Omar Hassan al-Bashir.
A una settimana dalla condanna di Meriam e a
pochi giorni dalla nascita della sua secondogenita
era inaccettabile che fosse in catene, abbandonata a
se stessa, isolata dai suoi cari e priva di assistenza
medica o psicologica. Era disumano, oltre che ingiusto.
Soprattutto a fronte delle aperture governative
testimoniate dalle dichiarazioni dell’ambasciatrice
sudanese in Italia, Amira Daoud Hassan Gornass,
peraltro moglie del ministro degli Esteri africano.
La diplomatica aveva diffuso una nota ufficiale nella
quale definiva «fondata» la richiesta degli avvocati
di Meriam di riaprire il processo e sosteneva che esistessero
ragionevoli possibilità di giungere a una revisione
della sentenza. Dopodiché aveva ricordato
che il verdetto della corte di prima istanza, basato
sulla legge islamica, sarebbe stato esecutivo solo
dopo che fossero stati esauriti tutti i gradi di giudizio
e gli appelli possibili. Infine, aveva sostenuto che,
pur essendo indipendente da qualsiasi forma di influenza
o interferenza politica, il sistema giudiziario
avrebbe dovuto tenere conto delle prescrizioni della
carta costituzionale, che tutelava in modo esplicito
la libertà di culto.
In realtà, a dispetto di ciò che affermavano il governo
e i suoi rappresentanti, la vicenda di Meriam
mostrava esattamente il contrario: la maggior parte
dei sudanesi si atteneva ai precetti della sharia, che
seguiva con più convinzione e rigore di quelli costituzionali,
e riteneva che fosse giusto punire in modo
adeguato chi li violava. Duro, per non dire crudele.
Anche se si trattava di una giovane, madre e in procinto
di partorire. Certo, il paese discuteva, c’era
chi, anche tra i musulmani, sosteneva le ragioni di
Meriam, chi si sforzava di comprenderla o parlava
di «pietà». La maggioranza, però, le puntava il dito
contro. E lo agitava minaccioso.
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