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Il mio nome è Meriam. IX capitolo. L’incubo continua nonostante la liberazione

Era il 23 giugno e Mohaned era uscito di casa molto
presto, visto che voleva essere in tribunale prima
dell’inizio dell’udienza di secondo grado. Quel
giorno la corte d’appello si sarebbe espressa sul futuro
di Meriam. Un futuro non immediato, nel caso
fosse stata confermata la sentenza che la condannava
a morte, ma che sarebbe stato segnato irreversibilmente
dalla decisione che i giudici stavano per
annunciare.
Era da poco passato mezzogiorno e gli uffici giudiziari
erano già aperti, cosa inusuale per gli standard
sudanesi.
Il giovane avvocato stava guidando lungo Al Baladiya
Street quando il cellulare iniziò a squillare.
Era il numero della cancelleria del tribunale.
Mohaned accostò.
La voce al telefono gli comunicò che il ricorso contro
la sentenza di primo grado a carico della sua assistita,
presentato il 21 maggio, era stato accolto e,
dunque, il dispositivo di condanna annullato.
Le tensioni delle ultime settimane sembrarono svanire in un istante.
Mohaned si slacciò la cintura di sicurezza e scese dalla macchina,
aveva voglia di urlare. Lui e i suoi colleghi avevano resistito a
pressioni di ogni sorta, avevano passato giorni e
notti a spulciare leggi e documenti, avevano esultato,
tentennato e discusso, ma, alla fine, ce l’avevano
fatta.
Chiamò subito Daniel e gli altri avvocati. Si diedero
appuntamento davanti al carcere. Dopodiché
raggiunsero il luogo dove avrebbero atteso che le
formalità necessarie per la notifica dell’annullamento
del verdetto fossero espletate. L’incubo stava
finendo. Ma bisognava essere cauti, andare con i piedi
di piombo. Soprattutto nessuno doveva sapere che
la giovane presto sarebbe stata scarcerata. La notte
non era ancora terminata.
Quando la guardia aprì la porta e la direttrice del
carcere entrò nella cella con un documento tra le
mani, Meriam capì all’istante che si trattava dell’ordine
di scarcerazione: la sentenza che l’aveva catapultata
in quella stanza misera e squallida era stata
annullata, era di nuovo libera.
Aveva in braccio Maya, la strinse al petto. Per la
prima volta da quando l’incubo era cominciato lasciò
che le lacrime le bagnassero il viso. Martin era
eccitato, come se avesse intuito qualcosa, come se
sapesse che la sua vita sarebbe finalmente ricominciata.
«Recupera le tue cose» disse la direttrice con un
tono freddo e distaccato, lontano anni luce dal fuoco
che Meriam sentiva bruciare nel petto, all’altezza del
cuore. «Dopodiché puoi andare.»
Meriam ci mise un istante, con Maya stretta in
braccio e Martin che non stava fermo un minuto, mise
insieme un misero bagaglio e, scortata dalla guardia,
si incamminò verso la sala d’attesa.
Daniel era lì, sulla sedia a rotelle. Quando la vide
rimase senza fiato. Aveva sognato quel momento centinaia
di volte: era molto più bello di quanto avesse
mai immaginato. Meriam era magra, stanca, sfatta.
Era meravigliosa.
Lo raggiunse, gli mostrò la piccola Maya.
Daniel allungò la mano quasi con timore e le diede
una carezza.
Meriam sorrise, lo guardò con i suoi grandi occhi
neri.
Daniel spostò la mano, la diresse verso il suo viso.
Per mesi non avevano potuto toccarsi, neppure
sfiorarsi. Erano due adulteri, due infedeli. Se le autorità
sudanesi non potevano dividere i loro cuori
avevano almeno diviso i loro corpi.
Meriam accolse la carezza, gli baciò la mano.
Rimasero un istante lungo un’eternità occhi negli
occhi, storditi dalle emozioni. Finalmente insieme.
Mentre Daniel faceva la conoscenza di Maya e cercava
di arginare Martin, che voleva in ogni modo la
sua attenzione, gli avvocati, che avevano assistito
a quell’incontro senza respirare, commossi quasi
quanto loro, aggiornarono Meriam su quel che stava
succedendo e che sarebbe accaduto. La decisione
della corte d’appello le aveva restituito la libertà, tuttavia
non era finita. La tensione era alle stelle e sarebbe
bastato niente per farla esplodere. Per prima
cosa, dissero, li avrebbero condotti in un luogo sicuro,
dove avrebbero avuto modo di ritrovare un po’
di serenità. Dove nessuno li avrebbe riconosciuti e
avrebbe tentato di far loro del male. Casa loro, conclusero,
non era sicura, bisognava trovare un posto
lontano. Dall’altra parte del mondo.
L’organizzazione del viaggio verso gli Stati Uniti,
paese di cui Daniel era cittadino e che aveva scelto
come meta sin dal principio, fu rapida e convulsa.
Viste le ovvie tensioni con la diplomazia sudanese,
si rivolsero all’ambasciata del Sudan del Sud, il più
giovane stato del mondo, nato il 9 luglio 2011 in seguito
a un referendum e a un conflitto durato oltre
vent’anni e costato milioni di morti. I funzionari
sud-sudanesi diedero il massimo supporto e si adoperarono
per trovare il modo di farli partire il prima
possibile. Visto che Meriam e i bambini non avevano
il passaporto le concessero un documento di emergenza,
un permesso di viaggio per motivi umanitari
che l’avrebbe autorizzata a raggiungere la capitale
sud sudanese e, da lì, lasciare il paese. Negli Stati
Uniti non ci sarebbero stati problemi poiché la diplomazia
americana aveva prontamente dato il via
libera al visto.
Sembrava che tutto procedesse in modo spedito.
Meriam pareva rinata mentre Daniel, che finalmente
poteva godersi Maya e Martin senza limitazioni, non
vedeva l’ora di partire: una volta arrivati in America,
si sarebbero diretti a Manchester, nel New Hampshire,
dove avrebbero riabbracciato suo fratello e il
resto della famiglia. Per i primi tempi si sarebbero
dovuti accontentare del piccolo ma accogliente appartamento
dove aveva vissuto da studente, più
adatto a uno scapolo che a una famiglia di quattro
persone. Daniel era convinto che la comunità sudanese
li avrebbe accolti a braccia aperte e si sarebbe
presa cura di loro in tutto e per tutto.
Quella prima notte che passarono insieme, Meriam
non riuscì a chiudere occhio. Daniel era al
suo fianco, Maya tra loro, e Martin, che non dormiva
da solo da cinque mesi, si agitava nel lettino.
La stanza dell’anonimo edificio di Khartoum
dove erano stati alloggiati temporaneamente era
immersa nella penombra e Meriam li osservava e
ascoltava i loro respiri.
Era libera. Ancora non riusciva a crederci. Sapeva
che quel momento sarebbe arrivato, lo sperava, ma
non se lo aspettava così presto. Era stata una grande
sorpresa. Come lo era stata scoprire che era ancora
in pericolo, che fino a quando fosse rimasta a Khartoum
qualcuno avrebbe potuto fare del male a lei e
alla sua famiglia. Negli Stati Uniti sarebbe stato diverso,
non avrebbe dovuto trascorrere la notte chiusa
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in casa, ma avrebbe potuto camminare sotto un cielo
di stelle e respirarne la magia.
Già, chissà com’era il cielo in America? E come sarebbe
stato vivere così lontano dalla sua terra?
Meriam non avrebbe voluto lasciare il Sudan.
Amava i suoi odori, i colori e i suoni. Erano parte di
lei. Sapeva che le sarebbero mancati da morire. Ma,
se voleva vivere, non aveva scelta.

* * *

«Meriam è libera! La corte d’appello ha annullato
la sentenza!»
Khalid non riusciva a trattenere l’emozione. Lui
e gli attivisti di Sudan Change Now si erano battuti
con il coltello tra i denti per ottenere quel risultato,
ci avevano dedicato tempo ed energie: sapere che
era servito, che ce l’avevano fatta, era una soddisfazione
travolgente.
Lo capivo e condividevo la sua felicità. Eppure mi
sforzavo di non farmi prendere dall’entusiasmo, di
tenere i piedi per terra. Non riuscivo a credere che
fosse finita: fino a quando non fossi stata certa che
Meriam avesse lasciato la prigione e fosse al sicuro
non sarei stata tranquilla.
A rendere pubblica la decisione del tribunale sudanese,
che ne aveva ordinato il rilascio, era stata
l’agenzia di stampa di stato suna. Una fonte affidabile.
Che, però, non mi bastava. Avevo bisogno che
Daniel o uno dei legali la confermasse.
Mohaned rispose dopo un paio di chiamate a
vuoto e mi confermò che Meriam non era più in
prigione, anche se i giudici avrebbero comunicato le
motivazioni della scarcerazione solo il giorno dopo.
«Non mi importa nulla delle loro motivazioni,
l’importante è che sia fuori» feci sollevata. «Ora è il
momento di festeggiare!»
Mohaned ridacchiò, poi, però, riprese a parlare
con un tono diverso, inaspettatamente serio.
«Aspetterei ancora un po’ prima di fare festa…»
disse, aggiungendo che era preoccupato per quello
che sarebbe potuto succedere adesso, una volta che
Meriam si fosse trovata in libertà.
I presunti parenti rappresentavano una minaccia
reale. In particolare Al-Hadi, il fratellastro, di cui Meriam
aveva ignorato l’esistenza fino a quando, senza
preavviso, l’aveva portata in tribunale. Continuavo
a chiedermi perché, nonostante le prove avessero dimostrato
il contrario, seguitasse a sostenere che la
storia di Meriam fosse inventata, che avesse tradito
la fede del padre e dovesse scontare la sua colpa.
Seppure fosse stato convinto di essere nel giusto,
come poteva provare tanto odio verso quella che
considerava sua sorella? Come poteva desiderare
che morisse?
Se mi sembrava assurdo che qualcuno dello stesso
sangue di Meriam la volesse sul patibolo, non mi
sorprendeva che in tanti, troppi, a Khartoum volessero
che fosse giustiziata. Avevo compreso dal
primo istante quanto fosse profondo il risentimento
del mondo islamico nei suoi confronti. Lei stessa ne
era consapevole. Questo, però, non l’aveva fermata.
Dal giorno della condanna era stata risoluta, decisa
ad andare fino in fondo perché sapeva di essere nel
giusto. Cinque mesi di carcere non l’avevano piegata
e, se la condanna non fosse stata annullata, avrebbe
tenuto duro e sopportato la prigione pur di fare valere
le sue ragioni.

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