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I bambini soldato e l’impegno di un ambasciatore in “Più forte della paura”

“Dopo averla stuprata le avevano inflitto la mutilazione dei genitali femminili”. Questa è la sorte toccata ad una “bambina soldato” che aveva tentato di sfuggire ai suoi aguzzini.
Bambini e bambine che una volta superato l’addestramento sono sottoposti alla scarnificazione, in particolare sul petto e sulla fronte, affinchè siano marchiati a vita. Come animali. Una pratica che purtroppo ci ricorda il numero  impresso sui deportati nei lager che appunto venivano denominati “stuck” pezzi e non persone.

“Più forte della paura”, di Antonella Napoli, racconta la storia di Suleya e del suo inseparabile amico AK47, meglio conosciuto come kalashnikov. Racconta di realtà africana, un mondo che difficilmente buca le pagine dei giornali e della Tv. Tranne quando uomini e donne disperati non sbarcano sulle nostre spiagge.

Il focus è dunque sull’infanzia rubata e sulle tante Suleya che dopo aver ucciso per sopravvivere finiscono nelle mani della “tratta”. Qualcuna si salva e può raccontare la sua storia, come Suleya.
Si parla di un paese, la Repubblica Democratica del Congo,  che è uno dei paesi dove maggiore è lo sfruttamento dei cosiddetti kadoga, come vengono chiamati i bambini soldato, che nella lingua swahili significa “piccoli”. Nei villaggi, i bambini dagli otto anni in su e a volte anche da prima vengono reclutati come combattenti, cuochi o facchini. Le bambine usate come schiave sessuali. Un fenomeno purtroppo noto nella storia come lo furono le schiave sessuali giapponesi nella seconda guerra mondiale, le “donne di conforto”, ragazze costrette a far parte di corpi di prostitute creati dall’Impero del Giappone.
Ma non  è solo un racconto di morte e sfruttamento.
“Chi è più fortunato,  chi nasce nella parte felice del mondo, ha il dovere di fare qualcosa per gli altri”
E questa fu la vocazione che  condusse alla morte Luca Attanasio, ambasciatore italiano in Congo, ucciso in un attentato il 22 febbraio 2021, insieme  al carabiniere di scorta Vito Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo. Un uomo, non certo un ambasciatore in feluca, impegnato per gli ultimi, per strappare alla guerra i tanti bambini di strada, facili prede da trasformare in bambini soldato. Dice ancora Attanasio: “Tutto ciò che noi in Italia diamo per scontato non lo è in Congo dove purtroppo ci sono ancora tanti problemi da risolvere. Il ruolo dell’ambasciata è innanzitutto quello di stare vicino agli italiani ma anche contribuire per il raggiungimento della pace”
Luca Attanasio è stato ucciso nella parte  orientale del Congo  dove imperversano decine di bande ribelli e che da quasi 30 anni è il triste palcoscenico di una guerra che non conosce fine e che ha portato a circa 5 milioni di vittime.
Guerre che sono scatenate per il controllo delle ingenti risorse minerarie che oltre al petrolio, oggi divenuto una tragica realtà, vede altri due minerali alla base dei conflitti spesso tribali. Il Coltan, in RDC se ne trova l’80% delle riserve mondiali, e il cobalto. Due minerali la cui estrazione avviene attraverso lo sfruttamento di bambini e bambine. Due minerali su cui il mondo occidentale basa il suo sviluppo. Uno sfruttamento di cui noi stessi siamo incolpevoli mandanti: il coltan sta nel nostro cellulare e in tutti gli strumenti tecnologici che usiamo.
Ma noi cosa possiamo fare? Vorrei rispondere ricordando le parole di Nuto Revelli:
“Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. I giovani devono conoscere la società in cui vivono. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della “generazione del Littorio”. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza la libertà non si vive, si vegeta”.
E allora anche un libro, come quello di Antonella Napoli, può aiutarci a capire la società in cui viviamo. E soprattutto prendere coscienza che in un mondo globalizzato, tutto è interconnesso, che il battito di ali di una farfalla in Cina può provocare un uragano qui in occidente. Che quello che accade in Africa o in un altro continente prima o poi le sue conseguenze arrivano qui da noi. Un tempo si chiamavano invasioni oggi le chiamiamo migrazioni. E spesso tra questi migranti ci sono ex bambini e bambine soldato.
E allora che fare? Certo accoglierli e aiutarli è un nostro dovere morale. Ma basta? Fino a quando non saremo in grado di analizzare a fondo i motivi sociali che portano all’arruolamento (motivi certamente economici, alla base c’è l’ineguaglianza) cercando di scardinarne le basi, con interventi che possano offrire delle alternative, quelle che Luca Attanasio e con lui i tanti volontari laici e religiosi, che agiscono sul campo, hanno portato e continuano a portare avanti, alternative che possano offrire un futuro ai minori, promuovendo migliori condizioni di vita attraverso la costruzione di percorsi di pace e di sicurezza, che vuol dire istruzione, sufficienza alimentare, democrazia.
Ho iniziato questa mia riflessione citando una frase tratta dal libro di Napoli: “Dopo averla stuprata le avevano inflitto la mutilazione dei genitali femminili”
Da sempre nelle guerre, e non solo, lo stupro è considerato un’arma di guerra fisica e psicologica per fiaccare la resistenza di un popolo.
Le donne, come i bambini e le bambine, sono la parte più debole dentro i conflitti. E come tali vengono spesso dimenticate.
Noi italiani che abbiamo vissuto una guerra civile e poi la liberazione da parte dell’esercito alleato coadiuvato dalla resistenza italiana, abbiamo spesso rimosso le violenze sulle donne (quanti ricordano le “marocchinate” a cui non viene dedicata neppure una giornata, sebbene di giornate della memoria e del ricordo ne sono lastricate le strade!).
E quanti sanno che nei tanti conflitti tanto per citarne alcuni su cui accendere i riflettori, quali quelli in Etiopia, Yemen, Sahel, Nigeria, Afghanistan, Libano, Sudan, Haiti, Colombia, Myanmar, conflitti spesso a bassa intensità, che non meritano neppure due righe di un giornale, dove i bambini/e soldato sono secondo l’ONU circa 300 mila, arruolati da bande ribelli quando non da eserciti regolari, per diventare combattenti in guerre che non capiscono e che li devastano nel corpo e nella mente, soggiogati attraverso la violenza anche dello stupro e dall’assunzione di droghe.
Oggi scopriamo gli stupri in Ucraina da parte delle truppe di invasione russa.
E come sempre di fronte a queste tragedie ritorna l’eterno dilemma: aborto sì, aborto no.
Oggi anche chi non crede, invoca le parole di Papa Francesco sul “fermate la guerra”. Un pacifismo che strumentalmente usa le parole del papa, che non dimentichiamolo è solo un’autorità morale, anche se Stalin fosse convinto delle “divisioni del Papa”, per avallare le posizioni, legittime per carità, ma certo parziali che solo gridando o scrivendo “pace” questa diventa possibile, tanto da far dire a Gino Strada, fondatore di Emergency: “Io non sono un pacifista, sono contro la guerra”.
Norberto Bobbio ci dice che “la guerra è un evento non necessario, ma possibile”. E allora come pensiamo di eliminare la guerra dal nostro vocabolario se non percorriamo la via della pace attraverso un “pacifismo come mezzo e non come fine”, come quello di eliminare gli strumenti della guerra convertendo le fabbriche di armi, basti pensare che gli Stati Uniti e l’Italia sono i primi due paesi esportatori di “armi leggere”, come pistole e fucili, usate quotidianamente dagli eserciti e dai guerriglieri nei conflitti e nei paesi che sfruttano militarmente i bambini soldato. Ma eliminare le fabbriche non basta se non si agisce anche sul diritto internazionale adeguandolo al nuovo quadro geopolitico (ad es. la riforma dell’Onu, il superamento dell’Alleanza Atlantica, uno strumento difensivo valido per i tempi della guerra fredda e del bipolarismo). Ma soprattutto occorre eliminare le cause che sono alla base di ogni guerra, che poggiano su un sistema di disuguaglianze economiche e sociali. Quando si parla di pace occorre sempre valutare che le azioni per la pace che si mettono in campo soddisfino due criteri quello della realizzabilità e della loro efficacia: così la guerra che ha un alto tasso di efficacia (la distruzione del nemico) ha un basso tasso di realizzabilità provocando, a parte lutti e devastazioni, una destabilizzazione che si protrae nel tempo.
Francesco con la parola “pace” invoca il diritto alla vita, ma alla vita di tutti…anche di chi è frutto di una violenza, conseguenza di un conflitto che purtroppo non siamo riusciti a fermare in tempo.
Il drammaturgo francese Jean Giraudoux disse: la pace è il tempo intermedio tra due guerre.
Il nostro eurocentrismo, fondato su 77 anni di pace “armata” non ci ha fatto vedere le tante guerre a pezzetti nel mondo, ma neppure i segnali di crisi che si stavano preparando nella nostra parte di mondo.
E oggi come allora ci ritroviamo a parlare di “stupri di guerra” e delle sue conseguenze.
A queste donne noi dobbiamo offrire tutto l’aiuto psicologico e materiale possibile, sostenendole in qualunque scelta loro volessero portare avanti. Chi siamo noi per poter giudicare una loro scelta dolorosa, quale è quella dell’aborto, nata da una violenza?
Non dimenticando però che le parole del Papa sulla pace implicano la difesa della vita, di ogni vita, e pur rispettando la loro libertà di scelta, far loro vedere che l’aborto non può essere considerato l’unica scelta possibile. Quanti ad esempio sanno, e qui penso alle giovani generazioni, che la legge italiana consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. Una legge di civiltà che intende tutelare la madre e il neonato, intesi come persone distinti, ognuno con specifici diritti.
Lo stupro di guerra come lo stupro di pace ci dice che per noi l’altro viene ridotto a cosa. Un corpo oggetto disponibile per se. E allora queste donne e questi bambini e bambine hanno bisogno di ritrovare un senso della vita, di uscire dalle tragedie che hanno attraversato la loro vita.
Di fronte alla ferocia dell’uomo non possiamo tacere.
Ascoltiamo il loro grido e non lasciamolo cadere.
Ricordandoci sempre che “ Noi non abbiamo ereditato il mondo dai nostri padri, ma lo abbiamo avuto in prestito dai nostri figli e a loro dobbiamo restituirlo migliore di come lo abbiamo trovato” (Robert Baden-Powell, fondatore del movimento scout)

 

 

 

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