“Stretti tra la terra e il mare, dove dovremmo rifugiarci?”
Dopo i massacri dei giorni scorsi, centinaia di persone ammassate lungo le spiagge di Deir al- Balah e Khan Younis hanno dovuto affrontare le onde di una forte mareggiata, che ha portato via molte tende di fortuna, in cui avevano trovato rifugio decine di famiglie, nella zona centrale e nella zona sud di Gaza. Molte persone hanno dovuto spostarsi e abbandonare alle onde quel poco che avevano. Di fatto si sono trovati schiacciati tra i pericoli del mare in tempesta e i proiettili, una situazione davvero da incubo.
Chi ha perso tutto non sa più dove andare.
Si erano rifugiati sulla spiaggia dopo i vari ordini di evacuazione e dopo che le loro case erano andate distrutte sotto i bombardamenti, adattandosi a vivere in spazi angusti, in condizioni igienico -sanitarie indescrivibili. Ora non hanno più neanche quello, oggi sono ancora più disperati.
Molti palestinesi non vogliono ancora andare via da quel che resta delle proprie abitazioni, nonostante raid e bombardamenti aerei si siano fatti ancora più pesanti negli ultimi giorni.
“Non c’è nessun posto sicuro a Gaza, nemmeno le scuole, dove dovremmo andare? Dovrei lasciare casa mia e sedermi in mezzo alla strada? No, di certo!” dice Maher, che non ha nessuna intenzione di lasciare la sua casa e continua a vivere tra le macerie del suo edificio. Alcuni si rifiutano di lasciare il proprio quartiere nelle mani degli occupanti, “sarebbe come consegnargli la città”, dicono. Così si vedono bambini spuntare tra i resti dei palazzi bombardati, che continuano a giocare come se fossero ancora nelle loro camerette, in una illusione di normalità.
Intanto i camion che trasportano medicinali e rifornimenti di carburante, necessari al funzionamento minimo di quel che resta di Gaza, sono bloccati nella zona nord della Striscia, ci dice il reporter Mohammed Asad.
Il carburante, sebbene insufficiente, è necessario per i generatori di corrente, per gli ospedali, che altrimenti non possono garantire i servizi minimi ai pazienti. L’attesa estenuante dei permessi di entrata non fa che esacerbare una situazione già catastrofica, in cui si vive ormai ora per ora, al limite della precarietà.