vai al contenuto principale
Etiopia. Migliaia di rimpatriati dal’Arabia Saudita spariti nel nulla

Etiopia, migliaia di rimpatriati dal’Arabia Saudita spariti nel nulla

Dopo mesi di detenzione nel paese del Golfo, l’Etiopia ha cominciato a rimpatriare decine di migliaia di propri concittadini. Quasi la metà però sparisce nel nulla.

Nel gennaio del 2021 Addis Abeba e Riyad hanno siglato un accordo per il rimpatrio di oltre 40000 cittadini etiopi. Siccità, violazioni dei diritti umani, difficoltà economiche, instabilità sociale hanno spinto negli ultimi dieci anni, centinaia di migliaia di etiopi a fuggire attraverso il Mar Rosso e attraverso lo Yemen -devastato dalla guerra- nei Paesi del Golfo.

 

Già dal Novembre dell’anno precedente i due paesi avevano collaborato al rimpatrio di migliaia di persone; tra il Dicembre 2020 e il mese di Luglio sono stati 41.485 gli etiopi a fare ingresso nel paese, con un aumento significativo negli ultimi due mesi del periodo.

Un rapporto di Human Rights Watch ha però messo nero su bianco quanto abbiamo saputo da fonti dirette negli ultimi mesi, ovvero che i migranti oltre ad essere stati arbitrariamente detenuti in Arabia Saudita, spesso in condizioni a dir poco ripugnanti, successivamente al loro trasferimento in patria sono stati arrestati e deportati in centri nella regione Afar o nel sud dell’Etiopia.

A farne le spese sono stati maggiormente i migranti di origine tigrina, circa il 40% del totale come riporta Hrw nel suo report.

“I migranti tigrini che hanno subito orribili abusi in custodia saudita vengono rinchiusi in strutture di detenzione al ritorno in Etiopia”, ha affermato Nadia Hardman, ricercatrice sui diritti dei rifugiati e dei migranti presso Human Rights Watch. “L’Arabia Saudita dovrebbe offrire protezione ai tigrini a rischio, mentre l’Etiopia dovrebbe rilasciare tutti i deportati tigrini detenuti arbitrariamente”.

I centri si troverebbero a Semera, presso l’aeroporto della città nella regione Afar, ad Addis Abeba, a Jimma in Oromia e a Shone, nella Regione delle nazioni, nazionalità e popoli del sud, Ospiterebbero migliaia di persone, fermate senza giustificazione per il loro arresto e per la loro detenzione. Molti dei detenuti non sarebbero riusciti a far sapere alle loro famiglie di essere tornati in Etiopia poiché è stato loro impedita qualsiasi forma di comunicazione verso l’esterno, una condizione che viola il diritto internazionale in materia di detenzione e che equivale alla sparizione forzata.

Il rapporto punta il dito sui maltrattamenti a cui sono sottoposti quotidianamente i fermati oltre a sottolineare le condizioni igienico sanitarie al loro interno, a dir poco critiche. A costoro non è stata permessa alcuna protezione legale, né un’accusa precisa di crimini da loro commessi che giustificherebbe la loro detenzione.

L’instaurazione dello stato di emergenza, proclamato il 4 Novembre scorso, concede al governo un’autorità di vasta portata sia in materia di arresto che di detenzione. La polizia federale può arrestare persone sulla base di un “ragionevole sospetto” di cooperazione con “gruppi terroristici” (il Tplf è stato dichiarato gruppo terroristico da parte del governo nel Maggio 2021) senza un mandato del tribunale o controllo giudiziario.

I deportati tigrini che Human Rights Watch è riuscita ad intervistare hanno raccontato di centri di raccolta in Arabia Saudita (formali e non), nei quali sarebbero centinaia di migliaia i migranti detenuti, che si troverebbero nelle città di Abha, Hadda, Jizan e Jeddah. In questi centri, dove in alcuni stanzoni vengono ammassate fino a 300 persone, i pestaggi sarebbero una realtà quotidiana e le condizioni igieniche al limite del collasso. Ma è al loro arrivo in patria che la situazione si complica ulteriormente.

Etiopia. Migliaia di rimpatriati dal’Arabia Saudita spariti nel nulla

Una volta arrivati ad Addis Abeba, presso l’aeroporto di Bole, dopo un breve incontro con la polizia federale e con le agenzie umanitarie vengono trasferiti in autobus nei centri governativi nella capitale. Al loro arrivo viene servito del cibo e dell’acqua, e viene dato loro accesso a docce e servizi igienici. Le notizie che ci giungono parlano di circa 1000 deportati presso il centro di Shiro Meda, 400 a Wosen, e 800 a Megenagna. Ad alcuni intervistati è stato riferito che avrebbero potuto lasciare il centro solo se si fosse presentato qualche parente, cosa che è accaduta (e che costringe i “fortunati” a nascondersi per paura di ulteriori arresti) ma che ha generato non poca confusione tra i detenuti, che non hanno compreso bene quale fosse la discriminante per la quale alcuni venivano rilasciati ed altri invece deportati ulteriormente a Jimma o Semera.

Nel primo dei centri sopraccitato, i detenuti sono stati inviati a lavorare nelle piantagioni di caffè, senza paga e sotto stretta sorveglianza, mentre a causa dell’inasprirsi dei combattimenti, i detenuti nel centro di Semera sono stati autorizzati a lasciare la regione via autobus. In alcuni di questi casi, i rilasciati sono stati nuovamente fermati ai posti di blocco, trattenuti in centri di fortuna e poi spediti a Shone nel sud dell’Etiopia.

Situazioni di una complessità davvero notevole che avrebbero portato alcuni di loro a rinunciare a lasciare i centri per paura di essere fermati per strada, o ancor peggio uccisi.

“Ci è permesso uscire, ma non lo facciamo perché abbiamo paura di essere arrestati. Rimarremo [al centro] finché non saremo costretti ad andarcene” afferma uno degli intervistati da Hrw.

La presenza di queste strutture è stata confermata da delle immagini satellitari raccolte dalla stessa agenzia e che confermerebbero quanto dichiarato dagli intervistati.

Un video pubblicato su Facebook il 21 Agosto scorso, che mostrava cinque persone costrette a rotolare per terra sotto la minaccia di alcuni soldati, in quello che sembrava essere una prigione nella regione Afar, è stato messo a confronto con le immagini a disposizione del centro di Semera ed ha portato a confermarne la presenza e a stabilirne il periodo di costruzione (attraverso il confronto con immagini storiche del sito) che dovrebbe assestarsi tra l’inizio di Aprile ed Agosto 2021.

Lo stesso procedimento è stato utilizzato per determinare la posizione di quello di Shone, identificato presso lo Shone Agricultural College dell’Università di Wachamo.

Ciò stride fortemente con i rilasci di oppositori politici e di alcuni tigrini avvenuti negli ultimi giorni per opera del governo; rilasci che a partire dalle affermazioni dell’inviato Usa, Feltman, farebbero presagire un cambio di rotta al conflitto e prospettare una risoluzione di quest’ultimo più ampia.

Al netto delle mosse politiche o strategiche messe in campo non possiamo esimerci dal raccontare ciò che abbiamo sempre denunciato: oltre l’inferno della guerra vi sono centinaia di migliaia di situazioni, a volte del tutto personali, che come gocce in mezzo al mare, contribuiscono alla narrazione degli eventi.

Un inferno nell’inferno -perdonate la ripetizione- quello a cui sono sottoposte migliaia di persone rimpatriate forzatamente dai paesi del golfo. Persone partite alla ricerca di un futuro migliore per se stesse e per le loro famiglie, inghiottite dal turbine della guerra e da quello del sospetto, rinchiuse in condizioni disumane e trattenute contro la loro volontà. Persone delle quali sappiamo ben poco, fatte sparire, detenute, fuggite; persone che proprio come in altri contesti, divengono numeri, percentuali, per poi sparire nell’oblio del tempo e nel cinismo dell’informazione.

Domani passeremo ad un nuovo fatto, dimenticandoci di chi non esiste più, almeno ai nostri occhi.

Matteo Palamidesse

Photo Credit: July 7, 2021. © 2021 Minasse Wondimu Hailu/Anadolu Agency via Getty Images

Torna su