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Etiopia, basta alimentare la polveriera che rischia di destabilizzare tutto il Corno d’Africa

Dopo la delusione per il silenzio complice di Aung San Suu Kyi sul genocidio dei Rohingyia, non pensavo di dover assistere di nuovo a un clamoroso voltafaccia verso i diritti di un altro vincitore di un premio Nobel per la Pace.
E invece è accaduto. Le atrocità commesse nel conflitto in corso in Etiopia nella regione settentrionale del Tigray, innescato dall’attacco ordinato dal primo ministro Abyi Ahmed, sono una coltre nera per una figura che rappresentava una speranza di progresso e democrazia per l’intera Africa.
E invece la sua scelta di  dare il via a una guerra genocida nello stato tigrino, che ha scatenato una vera e propria pulizia etnica nello stato ‘ribelle’ e violenze e distruzione nel resto del Paese,  ha portato l’Etiopia su un lungo oscuro sentiero verso la disintegrazione di intere comunità.

Abyi continua a mentire su quanto stia avvenendo, nonostante ci siano numerosi video che testimoniano la brutalità delle azioni di miliari e milizie (siamo in possesso di filmati altamente drammatici che per scelta non pubblichiamo preferendo raccontare ciò accade), mentre il mondo intero è testimone della realtà dei fatti.
L’Etiopia è una polveriera che sta per esplodere destabilizzando l’intera regione del Corno D’Africa e l’Italia è tra quei paesi che l’alimentano come testimonia la proposta di “Ratifica ed esecuzione dell’Accordo tra il governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica democratica federale di Etiopia sulla cooperazione nel settore della difesa” sottoscritto  ad Addis Abeba il 10 aprile 2019.
L’intesa prevede, tra l’altro, “l’approvvigionamento di equipaggiamenti militari nell’ambito di programmi comuni, secondo quanto stabilito dalle rispettive leggi nazionali sull’importazione e l’esportazione di prodotto a uso militare”.
In poche parole armi.
Secondo analisti ed esperti di trattati internazionali, la ratifica dell’Accordo violerebbe tre criteri delle ‘Common Positions’ sull’esportazioni di armi e di tecnologie militari adottate dal Consiglio d’Europa, e quindi da tutti i Paesi membri, l’8 dicembre 2008, ed entrato in vigore nello stesso giorno. In particolare l’intesa tra l’Italia e il governo del primo ministro Abiy Ahmed sarebbe in violazione del criterio “tre”, che vieta la vendita di armi in ragione della situazione interna del Paese acquirente se c’è il rischio che le armi vendute “possano provocare o prolungare un conflitto armato o aggravarne uno esistente” come ha sottolineato la Diaspora tigrina in Italia che, sentita dall’agenzia Dire,  sostiene che “l’accordo viola il criterio ‘due’ che vieta la vendita di armamenti a Paesi dove non vengono rispettati i diritti umani, e il criterio ‘quattro’” relativo al mantenimento della pace, la sicurezza e la stabilita della regione dei Paesi acquirenti”.
Focus on Africa non solo condivide le preoccupazioni della Diaspora ma sostiene la campagna su Twitter scandita dall’hasthag #ItalyGunsInTigray.
Intanto, nel Paese la situazione va sempre più deteriorandosi.
Dopo l’offensiva nel Tigray con centinaia di vittime e migliaia di sfollati e il riacutizzarsi delle tensioni con il Sudan, che rischiano di sfociare in un conflitto armato, le tensioni  politiche interne sono deflagrate in azioni di forte contrasto.
Uno dei principali partiti di opposizione, l’Oromo federalist congress (Ofc), ha annunciato il ritiro dalle elezioni parlamentari previste il prossimo giugno se il governo non libererà i propri leader in carcere e non lascerà operare le sue sedi nello Stato regionale dell’Oromia.
“Solo se le nostre domande avranno risposta e le nostre richieste saranno soddisfatte, rimarremo in corsa elettorale” ha dichiarato  Tiruneh Gemta, portavoce del partito, alla Bbc.
Tra gli esponenti di spicco dell’Ofc finiti in carcere, Bekele Gerba, Dejene Tafa e Jawar Mohammed, che devono rispondere di
accuse di terrorismo dopo un’ondata di disordini etnici seguiti all’omicidio del popolare musicista e attivista Hachalu
Hundessa, di etnia Oromo e ucciso a giugno nella capitale Addis Abeba.
Da Addis Abeba non ci sono state per ora dichiarazioni ufficiali ma la minaccia di ritiro preoccupa non poco l’establishment al potere anche perché potrebbe riguardare anche un altro partito di opposizione, l’Oromo Liberation Front (Olf).
Anche in questo caso  alti dirigenti della formazione politica sono stati arrestati e alcune delle sue sedi, compresa quella di Addis Abeba, sono state chiuse.
Il ritiro dei due principali partiti di opposizione potrebbe minare la credibilità del voto.
Anche sotto l’aspetto umanitario nel Tigray sono stati raggiunti livelli di pericolosità mai raggiunti prima.
Si rischia la penuria alimentare, come denuncia da settimane il Vescovo dell’Eparchia cattolica di Adigrat, Mons. Tesfaselassie Medhin.
Sono aumentati i casi di malnutrizione anche tra i bambini al di sotto dei 5 anni, denuncia l’agenzia Fides. Molte donne, costrette a partorire in casa senza alcuna assistenza, non riescono ad allattare il proprio neonato perché non assumono la giusta quantità di cibo necessaria per produrre il latte materno.
La situazione è aggravata dal blocco dei trasporti che rende inaccessibile agli aiuti umanitari l’80% della regione, l’aumento del prezzo delle derrate alimentari, il crollo delle vaccinazioni. Attualmente circa 4 milioni di persone non hanno accesso alle cure.
La Chiesa cattolica etiope, con la Caritas nazionale, ha subito attivato una rete di coordinamento per monitorare la crisi e garantire una risposta umanitaria adeguata, coinvolgendo gli Uffici diocesani, i membri internazionali della rete Caritas già presenti sul territorio e altre realtà tra cui Medici con
l’Africa Cuamm, che nella regione assiste oltre un milione di persone.
Bisogna fare presto per scongiurare una catastrofe sanitaria senza precedenti.

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