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Etiopia, arresti anche tra gli italiani. Le dichiarazioni del governo e il fattore economico

Lo stato di emergenza dichiarato il 2 Novembre dal governo etiope, oltre a sospendere le normali leggi in vigore nel paese, è entrato in una nuova fase, con fermi di cittadini stranieri e membri di agenzie ed Ong internazionali.

E’ di pochi giorni fa la notizia dell’arresto di 16 funzionari delle Nazioni Unite e del fermo di 72 autisti del World Food Program e del PAM a Semera, snodo principale della regione Afar, e delle ultime ore quella dell’irruzione negli uffici di una scuola dell’infanzia, gestita dai Salesiani ad Addis Abeba con il conseguente arresto di 17 persone, tra le quali alcuni sacerdoti, confratelli e uomini del personale.

Da sabato è in stato di fermo anche Alberto Livoni (nella foto, credits Ansa), 65 anni, emiliano, Coordinatore per l’Etiopia del “Vis” (Volontariato internazionale per lo sviluppo). L’uomo, come confermato dalla Farnesina, sarebbe in buona salute e confortato dalle visite concesse al personale dell’ambasciata italiana quotidianamente. E’ stato prelevato dalle forze di sicurezza etiopi dalla propria abitazione insieme a due membri dello staff locale del Vis. Sarebbe accusato di aver ceduto 20mila dollari ad un uomo e le forze di sicurezza sospettano che la somma di denaro sia andata a uomini del Tplf.

Casi che vanno ad aggiungersi a quelli di cittadini britannici e statunitensi, che come già riportato su queste pagine e confermato dall’Associated Press, sono stati travolti dai fermi in tutto il paese e soprattutto, negli ultimi giorni, nella capitale Addis Abeba.

Il governo del PM Abiy Ahmed però tira dritto e conferma che anche gli operatori delle agenzie internazionali così come chiunque operi nel paese, qualora venisse trovato a violare la legge verrà punito e che gli arresti posti in essere non hanno alcuna motivazione legata all’etnia.

La portavoce del Ministero degli Esteri, Dina Mufti, durante la conferenza stampa di giovedì scorso ha dichiarato in merito: “Vivono in Etiopia, non nello spazio. Che si tratti di un membro dello staff delle Nazioni Unite o dell’Unione Africana, devono poter essere ritenuti responsabili”, aggiungendo che il governo non terrà alcun colloquio con i leader del Fronte del Popolo del Tigray (Tplf) fin quando le forze del fronte non si saranno ritirate dalle regioni Ahmara ed Afar, saranno cessati i combattimenti e non verrà riconosciuta la legittimità del governo in carica.

Non è una novità quella appena descritta, almeno per i cittadini di etnia tigrina. In questi mesi più volte sono stati segnalati fermi ed arresti arbitrari di tigrini, sia nella capitale che in altre zone del paese. Una fonte che non citeremo per motivi di sicurezza, più volte ci ha sottolineato come si stia cercando di rimanere il più possibile in casa, di mettere al sicuro anche i propri cari e come a volte, ahimè, non vi si riesca. E’ di ieri il messaggio che mi avvertiva del fermo di un amico e dell’impossibilità di avere poi notizie sui fermati, portati presumibilmente in più centri di detenzione per essere interrogati.

Una situazione che ha cominciato -e pur si muove!- ad allarmare anche il nostro governo. Martedì scorso, il Copasir ha acceso i riflettori sulla’Etiopia, con l’audizione del generale Giovanni Caravelli, direttore dell’Aise, cioè i servizi di intelligence all’estero, ponendo l’accento sulla sicurezza, sulle possibili ricadute economiche, sulla dinamica dei flussi migratori e della penetrazione islamica nel Corno d’Africa, regione di nostro prioritario interesse strategico, come confermato dal senatore Adolfo Urso, Presidente del Copasir.

Con il TDF a 325 km dalla capitale e i combattimenti che ad oggi coinvolgono intere aree del South Wollo e delle zone Oromo della regione Ahmara (le forze del Tigray si sono attestate a Kemise dove si sarebbero unite a quelle dell’Oromo Liberation Army, OLA)  e della regione Afar, con oltre 400mila persone a rischio morte per fame e circa 5 milioni che necessitano di aiuti alimentari, con centinaia di migliaia di sfollati interni, 67mila in Sudan e una regione come il Tigray nella quale manca ormai da tempo ogni genere di prima necessità, dal cibo al gasolio, dai farmaci (l’80% di medicine e prodotti medicali ormai sono introvabili, come confermato dalle Nazioni Unite) al denaro (le banche non prestano da tempo i loro servizi), si profila uno stallo nel quale ciò che potrebbe davvero emergere, tra gli orrori della guerra e la sofferenza della popolazione, è la fragilità attuale dell’economia etiope.

In pochi, molto pochi, stanno ponendo l’accento sul fattore economico, che potrebbe divenire davvero dirompente qualora il conflitto si prolungasse a tempo indeterminato. L’Etiopia oltre ad essere al centro di interessi geopolitici e strategici di primo piano è fondamentale anche per gli interessi economici di molte potenze internazionali, con le quali fino ad oggi ha intrapreso partnership affatto trascurabili. Non a caso uno dei punti all’ordine del giorno dell’audizione del Copasir si focalizzava sugli interessi italiani e sulle possibili ricadute economiche derivanti dal conflitto odierno.

Negli ultimi due anni l’Etiopia ha imboccato una via molto più liberista in campo economico, confermata dal rafforzamento dei rapporti con il Fondo monetario internazionale, imperniato sull’aggiustamento strutturale e la stabilizzazione finanziaria, con i principi cardine del contenimento della spesa pubblica, della deregolamentazione e liberalizzazione.

Tutto ciò prima o poi peserà, si guardi per esempio alla rescissione dell’accordo AGOA con gli USA (la partnership fornisce ai Paesi dell’Africa subsahariana ammessi al programma ’accesso esente da dazi al mercato statunitense per oltre 1.800 prodotti) e aggiungerà il peso di un’economia in caduta al peso già gravosissimo della guerra.

Nella quale, val bene ricordarlo sempre, si trovano intrappolati centinaia di migliaia di esseri umani.

 

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