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Dopo il ritiro dall’Afghanistan l’Italia si stabilisce in Africa

Significativo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, che in qualche modo potrebbe aprire nuovi scenari per il Bel Paese dopo l’abbandono dei soldati in territorio asiatico. Di certo l’Italia giocherà le sue carte in tavola, concentrandosi sulle aree maggiormente a rischio nel Mediterraneo, ma anche in zone più vaste per contrastare, con un dispiegamento di uomini e mezzi mai visto prima, le minacce maggiori (immigrazione irregolare, terrorismo…) che da tempo affliggono l’Africa e l’Europa. La notizia ufficiale arriva esattamente vent’anni dopo l’arrivo delle truppe italiane e statunitensi giunte in Afghanistan nel 2001 per sconfiggere Al Qaeda. L’effettivo ritiro degli 895 militari italiani impiegati in territorio Afghano, avverrà verso la fine maggio, dopo l’importante riunione dei ministri degli Esteri dell’Alleanza a Bruxelles. Queste sono le notizie diffuse da fonti attendibili in seguito alla decisione presa e sostenuta dall’ amministrazione americana alcuni giorni fa, riguardo all’ordine di procedere con il ritiro del contingente internazionale entro il prossimo 11 settembre. Attualmente sono oltre seimila i nostri soldati impiegati in diverse missioni internazionali, e nei prossimi mesi saranno definiti nuovi assetti a cominciare per l’appunto dall’Africa.

Secondo il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini a La Stampa: “L’Italia ha una sua visione e vuole giocare un ruolo nell’area che definiamo “Mediterraneo allargato”. Qui il nostro Paese s’impegna nella prevenzione e nella gestione delle crisi. Non potrebbe essere altrimenti, perché questi quadranti geografici sono strettamente interconnessi tra di loro. Se guardiamo una cartina geografica, è evidente che i Paesi africani dove siamo presenti disegnano un grande triangolo. A Sud-Ovest c’è il Golfo di Guinea, dove sono state inviate navi della Marina militare in compiti antipirateria. A Sud-Est c’è il Corno d’Africa, dove l’Esercito ha un contingente a Mogadiscio, per l’addestramento delle truppe somale, e la Marina ha una base a Gibuti, in funzione antipirateria e di addestramento di militari somali e gibutini. Al vertice Nord c’è la Libia, dove svolgiamo attività di supporto sanitario e umanitario e di supporto tecnico-manutentivo a favore della Guardia costiera libica. Abbiamo uomini anche in Mali e in Niger con compiti addestrativi e di contrasto della minaccia terroristica nel Sahel. Questa sorta di triangolo è una somma di aree di crisi. La nostra presenza va letta nell’ambito di una strategia unitaria della nostra Difesa, non come fatti episodici. Nel Sahel, l’Italia collaborerà con la Francia che, con la missione Barkane, schiera circa 5.200 uomini in un’operazione “combact” e che conta anche sul sostegno dell’operazione parallela, Takuba, affidata al contributo di forze europee. La comunanza d’intenti tra Roma e Parigi c’è. È particolarmente evidente nel Sahel, dove sono arrivati i nostri primi militari che prenderanno parte alla task-force Takuba. Una sintonia analoga vale per la Libia, all’insegna di un rapporto che verte sulla cooperazione e non sulla competizione. Siamo concordi per un impegno alla stabilizzazione di un’area dove si giocano importanti interessi. Naturalmente quel Paese assume una rilevanza diversa per ragioni di sicurezza nazionale, economiche, storiche, culturali, ma dobbiamo sempre considerare quella grande area di crisi di cui dicevo, caratterizzata da una forte presenza jihadista, le cui conseguenze si riverberano inevitabilmente sull’Italia e sull’Europa. Il nostro approccio resta sempre lo stesso. Noi diamo appoggio e addestramento alle forze di sicurezza locali. Il nostro vuole essere un apporto efficace e di lungo termine. Se vogliamo garantire alle istituzioni di quei Paesi la possibilità di gestire le situazioni di crisi in maniera autonoma, dobbiamo lavorare in questa direzione. È un investimento che richiede pazienza, ma dai risultati duraturi”.

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