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Deserto del Sahara, sulle rotte della morte

Sahara nord-orientale. Esterno giorno. Il deserto è accecante, inospitale, ostile.
Inizia da qui il viaggio sulle orme dei migranti che dal Sudan, attraverso le aree desertiche che si allungano fino all’Egitto e alla Libia, provano a raggiungere la costa per imbarcarsi verso l’Europa.

Una via di fuga attraverso il deserto 

Il nostro itinerario, intrapreso per raccontare le rotte attraversate da chi sogna un futuro migliore in occidente, è un tragitto duro e stancante ma in sicurezza. Con jeep attrezzate, carburante per coprire due volte la distanza che dobbiamo percorrere e acqua e cibo a sufficienza per sfamare il doppio di noi.
Altro è la fuga disperata di migliaia di persone che scappano dall’inferno della guerra, della pulizia etnica, della povertà assoluta – peggiorata con la crisi economica acuita dalla pandemia di Covid 19 – e dalla devastante carestia che in tanti paesi africani è la costante di una vita al limite della sopravvivenza.
Il deserto libico, noto anche come “Grande mare di sabbia”, si trova nella parte settentrionale e orientale del Sahara e occupa l’Egitto sudoccidentale, la Libia orientale e il Sudan nordoccidentale, estendendosi per 1.000 km da nord a sud e circa 1.100 km da est a ovest.
Orientarsi è molto difficile. L’enorme distesa desertica, che lo sguardo non arriva a coprire, fa perdere il senso della distanza e della dimensione. La luce trafigge gli occhi come uno stiletto rovente, impedisce di fissare un punto per più di qualche secondo insinuando nella mente annebbiata dal caldo un senso di smarrimento.
Quando poi cala il buio, la notte si trasforma in un incubo e prevale il disorientamento, temporale e spaziale, che amplifica la paura e l’incertezza.
La marcia è molto lenta e difficoltosa, ci vogliono tempi lunghi per coprire anche distanze minime.
Una via di fuga disperata.
Eppure il viaggio attraverso i deserti, del Sahara come della penisola del Sinai, è l’unica alternativa per un immenso popolo di senza speranze. La sola possibilità per una moltitudine di persone che cercano di garantire a se stesse e alle proprie famiglie una vita sicura.

I pericoli di un percorso infinito

Chi si addentra nelle aride lande desertiche tra Egitto e Sudan per sperimentare qualche ora di avventura, con pranzo al sacco, vive un’esperienza fantastica, consigliabile.
Ma se devi attraversarle come via di fuga, percorrendo chilometri su mezzi di fortuna e poi lunghi tratti a piedi, tra arbusti, sabbia bollente e terreni dissestati, è tutta un’altra storia.
In un attimo puoi ritrovarti a terra, ferito, con una gamba lacerata o sanguinare da una frattura scomposta.
E il tuo viaggio finisce lì.
Lo sa bene Esam Elhabi, che ha perso così il miglior amico, Adam, coetaneo con il quale era fuggito dal Sudan.
Driver 35 enne di etnia Fur, Esam è nato e cresciuto in Darfur, regione occidentale sudanese che ha deciso di lasciare dopo essere stato coinvolto appena diciottenne in un conflitto civile.
Due anni di orrori che non ha mai dimenticato.
Ha un bell’aspetto Esam. Alto, muscoloso, colori più arabi che africani: al Cairo, dove è arrivato nel 2006 con pochi soldi e tanta determinazione, sono un ottimo biglietto da visita.
Grazie al suo buon inglese ha trovato subito lavoro come autista per un operatore turistico.
È lui ad accompagnarmi sul ‘cammino’ dei migranti provenienti dall’Africa Sub Sahariana, che percorriamo insieme a una guida e a un addetto alla sicurezza armato, misura necessaria per non incorrere in brutte disavventure.

Storie di chi ce l’ha fatta e chi no

So di essere fortunato, di essere un sopravvissuto” dice Esam con una tristezza profonda nelle parole e nello sguardo ripensando a chi ha fallito nella pericolosa traversata del deserto, pagandola a caro prezzo.
Alcuni con la vita, altri con indicibili violenze e sofferenze senza fine.
Come il dolore che accompagna Mariam K., lunghi capelli corvini, la bellezza sfrontata dei vent’anni.
Il toub, la tipica veste femminile sudanese che indossava quando ha lasciato Kassala, la sua città natale, non è riuscita a celarla. È stata la sua condanna.
“Siamo partiti in sei da Dongala su un camioncino, l’autista era un sudanese arabo – racconta nel centro per rifugiati  dove la incontriamo alle porte di QalyubiaHa voluto essere pagato subito. duecento dollari a testa. Ci ha lasciati in un’oasi nell’area desertica di Bir Tawil dicendoci che sarebbe arrivato un altro autista che avrebbe proseguito il viaggio. La sera, invece, si sono presentati due uomini su cammelli che chiedevano di essere pagati per passare la notte nell’oasi”.
Il racconto di Meriam e intervallato da sospiri e singhiozzi. Ma è fermo, lucido.
Io non avevo più soldi. Mi hanno isolata dal gruppo. Nessuno dei miei compagni, che dal primo momento mi avevano guardata con sospetto essendo una donna che viaggiava da sola, ha fatto nulla per impedirlo. Mentre uno dei due continuava la contrattazione, l’altro mi ha spinta verso una tenda malmessa e mi ha violentata. Quando ha finito mi ha detto che se non avessi fatto storie e avessi accettato di essere la sua schiava sessuale durante il viaggio, mi avrebbe portata a Tripoli. Ero sconvolta ma non potevo far altro che accettare”.
Il flusso di parole si interrompe. Mariam non riesce ad andare oltre.
Amelie, cooperante e psicologa che opera nel campo, prosegue per lei.
Anche l’altro uomo che gestiva l’oasi ha voluto un ‘tributo’ per quel ‘passaggio’ verso quella che Meriam credeva fosse la sua salvezza . E invece è stato solo l’inizio di un altro inferno. Finita nelle mani della polizia di frontiera egiziana, questa giovane sudanese è stata portata in una stanza di una struttura fatiscente a un checkpoint, dove era accalcata una mezza dozzina di agenti. L’hanno stuprata a turno, più volte. Tutti…” sottolinea la giovane occidentale con rabbia.
Non riusciva nemmeno a camminare quando l’hanno lasciata andare – aggiunge Amelie, che sostiene e aiuta psicologicamente le donne vittime di violenza di genere –  All’ufficio immigrazione dove ha trovato il coraggio di presentarsi, ha cercato di denunciare gli agenti che l’avevano violentata ma l’unica cosa che ha ottenuto è stato il foglio di via con la domanda di asilo respinta”.
Amelie ci spiega che sono in migliaia a subire la stessa sorte di Mariam. Soprattutto le più giovani.
Un report condotto nel 2019 da Amnesty International ha rilevato che l’80% delle donne che attraversa illegalmente il confine tra Egitto e Sudan è vittima di abusi sessuali.
Sono, tra l’altro, dati approssimativi. Di molte purtroppo si perdono le tracce”, sottolineano gli attivisti per i diritti umani che hanno raccolto le testimonianze su un fenomeno inarrestabile.

Un flusso ininterrotto di “senza futuro”

Nonostante i rischi di subire violenze siano pressoché una certezza, la percentuale femminile di chi cerca di attraversare la frontiera resta alta. Ma per loro, come per chiunque provi a valicare il confine, la possibilità di farcela è minima.
Tutta la zona dell’Alto Egitto, verso la frontiera con il Sudan, è un buco nero: gli arresti eseguiti lì non rientrano nemmeno nelle statistiche ufficiali” sostiene Paolo Cuttitta, della Vrije Universiteit di Amsterdam, che ha redatto un dettagliato report sulla situazione dei migranti che giungono in Egitto per poi tentare di raggiungere l’Europa.
Il ricercatore sottolinea come la condizione dei richiedenti asilo e i limiti operativi delle agenzie umanitarie internazionali e delle organizzazioni non governative, rendano nullo ogni criterio di rispetto e di tutela dei diritti umani.
Nessun centro di accoglienza, lì, è accessibile: quella è proprio una no-go area» sostiene nella sua analisi per ADIF, Associazione Diritti e Frontiere sottolineando come “Indipendentemente dal luogo di detenzione molti rimpatri avvengono in palese violazione dell’obbligo di non-refoulement, come nel caso di tre siriani rimandati a Damasco nel gennaio del 2018 o dei cittadini etiopi di etnia oromo, sistematicamente perseguitati nel loro paese”.

I respingimenti illegali di profughi

Ogni giorno, diverse persone di varie nazionalità vengono respinte ai checkpoint egiziani nel confinante Sudan, paese di transito non solo per chi arriva dall’Africa Sub Sahariana ma anche per i siriani che avrebbero diritto allo status di rifugiati.
Da quando a questi ultimi sia l’Egitto sia gli altri paesi della regione – tranne, appunto, il Sudan – hanno imposto l’obbligo di visto, quella sudanese è l’unica strada possibile.
Nonostante l’incremento della sicurezza e delle limitazioni, c’è chi non cede. Soprattutto coloro che hanno già affrontato lunghe traversate da paesi mediorientali come Siria e Iraq.
Si accampano lungo il confine nell’attesa del momento giusto per provare ad attraversare l’ultima parte di deserto, pur consapevoli della presenza di criminali e trafficanti di esseri umani senza scrupoli.

Il ‘traffico umano’ e il contrabbando d’organi

In migliaia, giorno dopo giorno, cercano di eludere i severi controlli frontalieri, sfidando lo sfinimento da calore e da fatica finendo nella rete  del ‘traffico’ umano basato su ‘tasse’ richieste per il ‘transito’.
Chi non ha abbastanza denaro viene rapito per poter chiedere riscatti alle loro famiglie.
Tutto ciò che ci è rimasto è la nostra fede in Allah” dice con amarezza Amir, che ha lasciato Aleppo, città siriana dove viveva con la moglie e i tre figli fino a quando è stata completamente distrutta.
“Non ci resta altro in questo viaggio. Ci hanno sequestrato e lasciati andare solo quando gli abbiamo consegnato tutti i soldi e ciò che di prezioso avevamo con noi” la sua drammatica conclusione.
Il rapimento per fini economici non è l’unico rischio.
È stato accertato che in alcuni casi gli ‘scomparsi’ siano stati vittime di tratta di schiavi e di espianto di organi.
Dal 2016 ad oggi sono stati rinvenuti nel deserto migliaia di corpi orrendamente mutilati: privi di cornee e con l’addome squarciato.

Oltre 1700 le persone scomparse nel deserto

Un rapporto congiunto UNHCRMixed Migration Center pubblicato a inizio anno ha rilevato che circa 1.750 persone, partite dall’Africa occidentale e settentrionale, sono scomparse e presumibilmente morte nelle traversate tra Libia ed Egitto.
Una media di almeno 72 morti al mese. Il picco nel maggio 2020, quando sono stati registrati almeno 85 decessi lungo le rotte di terra, tra cui 30 persone uccise dai trafficanti a Mizdah, in Libia.
Ed è probabile, fanno notare gli estensori del report, che molte altre vittime non siano state registrate.
UNHCR e MMC evidenziano come le uccisioni extragiudiziali, l’essere lasciati morire nel deserto, la tortura per ottenere riscatti, la violenza e lo sfruttamento di genere, i matrimoni forzati, e altre gravi violazioni dei diritti umani, siano tra i pericoli affrontati dalle persone che dal Medio Oriente, dal Corno d’Africa e dall’Africa occidentale viaggiano attraverso il Nord Africa.
In alcuni luoghi chiave i rischi sono ancora maggiori e rifugiati e migranti possono essere vittime di più attori lungo il percorso.
Un dato significativo, secondo l’indagine,  è quello relativo alla violenza di genere i cui principali autori sono i trafficanti di esseri umani ma anche forze dell’ordine e di sicurezza, polizia di frontiera e funzionari dell’immigrazione.
Anche bande di contrabbandieri di droga e altro genere di prodotti illegali, che spesso operano con la protezione di gruppi armati, sono responsabili di di questo e altri terribili abusi.

Quella sfida impossibile che costringe alla rinuncia

Siamo stati derubati da gente con il viso travisato che imbracciava mitragliatori. Non so dove sia il resto delle persone con cui viaggiavo. Non ho più nulla. Tornerò in Ciad, tornerò a casa ” è lo sfogo disperato di Adam, 25 anni, partito insieme al fratello Ahmed e due amici di cui ha perso le tracce a metà percorso mentre cercavano di sfuggire a un gruppo di uomini armati.
È tutto più violento ora. Ci sono più armi e i rischi per i migranti sono aumentati” conferma Abdel, cooperante di una ong internazionale che porta aiuto ai profughi dei 15 centri di smistamento ai margini del deserto libico.
Chi affronta tutto questo lo fa per sopravvivenza. Non hanno nulla da perdere e sono pronti a esporsi a qualsiasi pericolo” la sua certezza.
Il deserto è l’ultimo e più insidioso ostacolo per i migranti che tentano di arrivare alla costa per provare la traversata del Mediterraneo e raggiungere Italia o Grecia.
La maggior parte ne viene inghiottita, sepolto dal ‘mare di sabbia’.
Dal Sinai al Sahara, l’esodo per migliaia di disperati finisce quando vengono ghermiti da trafficanti, jihadisti e criminali di ogni genere.
Morti “dimenticati” che superano nel numero quelli scomparsi nel Mediterraneo, come rivelano le angoscianti testimonianze dei sopravvissuti.
Esseri umani che cercavano un destino migliore della miseria e dei soprusi da cui fuggivano e che sul confine tra Egitto, Sudan e Libia hanno perso prima la dignità, poi la speranza e infine la vita.

Nota dell’autore In questo articolo i nomi dei miei interlocutori, così come quelli di alcune delle organizzazioni che essi rappresentano, sono omessi. Ciò è dovuto a motivi di sicurezza e riservatezza e risponde a un’esplicita richiesta degli interessati.

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