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Delitto Attanasio-Iacovacci- Milambo: ergastolo per i sei imputati ma la verità è ancora lontana

Sei pesanti ergastoli e un risarcimento di 2 milioni di dollari allo Stato italiano. Il verdetto per i presunti assassini dell’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, Luca Attanasio, del carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, e dell’autista Mustapha Milambo, uccisi mentre viaggiavano il 22 febbraio del 2021 con un convoglio del World food programme, è di quelli duri. Durissimi. Anche se non è la pena di morte chiesta dalla pubblica accusa.

Il tribunale militare della guarnigione Kinshasa-La Gombe ha emesso ieri la sentenza di carcere a vita per Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu (alias Ombeni Samuel) e Marco Shimiyimana Prince. Il sesto accusato, Ikunguhaye Mutaka Amos (alias Asperant), è ancora in fuga.

La Corte ha ritenuto attendibili gli elementi di prova presentati dal procuratore, dai verbali delle confessioni iniziali degli imputati, ai filmati dei confronti con la polizia di Goma che li aveva arrestati nel gennaio del 2022.

Il presidente del tribunale, Freddy Eume, ha letto il dispositivo del verdetto in un silenzio quasi surreale, rotto solo dal belato delle capre e dal chiocciare delle galline che razzolano abitualmente nel cortile del carcere di Ndolo, a poche decine di chilometri dalla capitale congolese, dove si è svolto il processo.

I sei imputati sono stati ritenuti colpevoli di “omicidio, associazione per delinquere, detenzione illegale di armi e munizioni di guerra” ma loro si sono sempre professati innocenti.

“I nostri  assistiti non c’entrano nulla con questa storia e hanno un alibi di cui i giudici non hanno voluto tener conto. Questo processo è politico” hanno scritto i legali degli accusati che hanno preannunciato ricordo all’Appello,

Dopo le ammissioni al momento dell’arresto, i cinque uomini hanno ritrattato tutto affermando che gli erano state estorte sotto tortura.
“Ci aspettiamo che l’Italia pretenda la verità piena perché Luca era un suo ambasciatore. Noi la aspettiamo ancora. Se come ha affermato il procuratore si è trattato di un‘esecuzione allora bisogna capire chi è il mandante, sempre che non ce ne sia più di uno, e non fermarsi soltanto agli esecutori” è la ferma posizione dell’ingegnere Salvatore Attanasio, padre del diplomatico, che a fronte della richiesta di condanna a morte per gli imputati lo scorso marzo ha chiesto al legale della famiglia, l‘avvocato Rocco Curcio, il cui ruolo è stato fondamentale per rilanciare le attività investigative sul caso, di ritirare la costituzione come parte civile.
Diversa la posizione del governo italiano che è rimasto nel processo e attraverso l’ambasciatore nella Repubblica democratica del Congo, Alberto Petrangeli, ha seguito tutto il dibattimento e ha formalmente chiesto alla Corte di non emettere un verdetto di pena capitale.
Un risultato importante quello ottenuto dal nostro diplomatico che ha difeso i valori costituzionali del nostro Paese.

Si è detta “contenta” dell’esito della sentenza Zakia Seddiki, la vedova di Luca Attanasio sottolineando che “con queste condanne è stata fatta giustizia senza spargere nuovo sangue”. Dunque un verdetto che riconosce valido, nonostante più osservatori lo abbiano definito non equo e viziato da errori e azioni arbitrarie.

L’ambasciatore italiano, 43 anni, nato a Saronno ma vissuto a Limbiate, sposato e padre di tre bambine, e il carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, trentenne originario di Sonnino (Latina) che aveva tentato fino alla fine di salvare il suo capo missione, sarebbero stati vittime di un’esecuzione dopo un tentativo di rapimento sventato da alcuni ranger del parco Virunga, nel nord Kivu, poco distante dal luogo dell’agguato.
I nostri connazionali stavano viaggiando a bordo di una autovettura non blindata del World food programme. Sulle responsabilità dei funzionari dell’organizzazione Onu Rocco Leone e Mansour Rwagaza, rispettivamente vicedirettore del Wfp in Congo e responsabile della sicurezza del convoglio, il 25 maggio è fissata l’udienza preliminare al tribunale di Roma per la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati avanzata dal pm Sergio Colaiocco per omesse cautele. Ma sulla possibilità che il processo possa partire pende la richiesta di immunità a cui si appellano Leone e Rwagaza.

 

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