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Dall’Eritrea all’Italia, la storia di speranza e di musica di Mihretu

Ha per occhi due perle. Guardano, corrono, rincorrono, ricordano, piangono vite, sorridono alla vita. Di bianco intenso lucido splendente e nero al centro. Perle. Rare e solitarie quando ingoia sorsi di passata Eritrea bella e superba, gioiosa, libera, verde, e d’amblée tradita, soffocata, repressa, prigioniera. Eritrea che porta con sé, in tasca, nelle mani, negli occhi, nel cuore. Alto poco meno di due metri. Quarant’anni. Accoglie e abbraccia, nel ricordo vivido, sponde e Paesi toccati in fuga. Posa lo sguardo su cosa non sa bevendo caffè, ingoiando sorsi di libertà sofferta. Libertà mai piena, mai vera, nell’errare quotidiano alla ricerca di qualcosa che non sa, di qualcosa che non c’è, di qualcosa che sente di dover avere e  continua a cercare. È un che proprio del fuggitivo, del rifugiato, dell’essere errante in terra straniera, del migrare in terra amica, in terra mai  ”terra di casa mia”. Mihretu è qui e lá. Poliedrico artista, fine intellettuale, poeta di tutti i giorni. Ha la musica della vita in quegli occhi di perla che vedono quel che non c’è, che non vedono quel che c‘è, che non smettono di sognare, di vivere, amare, credere nell’Africa libera. Col cuore tra le mani respira dolce chino sulla culla della bambina che lascia in Eritrea con la mamma. Scappa verso altre terre. Si allontana e porta con sé profumi di casa che nasconde ancora oggi nelle narici. Paga in dollari, mille e duecento, con altri come lui il barcone e la difficile traversée du desert. Una settimana a piedi. Rotti e sanguinanti. Labbra screpolate, gola secca, pelle arida stirata e stomaco teso dal vuoto. L’imbarcazione beccheggia e così paura, timori e pensieri. Libici crudeli con frusta marcano scudisciate, segnano, feriscono. Mihretu è qui nell’inferno libico a soffrire ed é lá a mostrar carte per “chiamare” in Europa la giovane moglie eritrea con la bambina. Mihretu ha dolore sin dentro il cervello  e voglia di vivere  più forte. Sfida, va, contro ogni ostacolo, verso dove non sa, diretto verso la libertà. È sul barcone della traversata che vede la morte accanto, difronte, sottocoperta, sott’acqua. Decine di compagni di viaggio morti di fame, di sete, di mal di mare, scaraventati in acqua dalle onde, gettati da mano per far largo, nascosti sotto corpi vivi….e quella mamma col bambino freddo tra le braccia che lava di caldo con lacrime, che riscalda con alito e singhiozzi, che implora di tenerlo stretto al petto sino a terra ferma che verrà, se verrà, per coprirlo di terra amara. Aveva tre anni Macbel. Mihretu non vuole parlare più di quella traversata, ingoia il tempo ma quel corpicino stretto sin dentro il cuore di mamma é lí a vivere con lui. Approda a Lampedusa dopo dieci giorni di navigazione. Gira l’Italia. Mezza Europa lo rinvia in Italia. Non ha mal d’Africa né sa cosa sia che altri provano struggente. …ma “ non mi sento a casa” dice. Devo stare sempre attento sul filo per ogni cosa.” Lavora e s’innamora di Sara, un quadro dell’ARCI sempre accanto agli ultimi e a chi non ha voce. Insieme nel porto degli sbarchi a Salerno, accolgono, mediano, smistano, traducono, curano. E’ un amore forte che inizia da subito negli occhi. E’ il 2009. Sara Bruno e Mihretu Ghide si sposano nel 2015. A gennaio di quest’anno nasce Lisa. La danza dei volti drappeggia nascosta, sottotraccia, riaffiora nei rigurgiti del migrare vissuto. Mihretu è qui a Crotone, accanto a  Sara e a Lisa, di pochi mesi già principessa prima di nascere. Mihretu è lá. In Svizzera, ogni estate accanto a Ferusa, la sua prima figlia di18 anni. Famiglia allargata che cura, non tradisce, ama, avvicina, tiene unita. Fratelli e sorelle vivono in Paesi africani. A sud. Ne ha secretato il dove. Genitori e sorella maggiore in Eritrea lì dove Mihretu non può più tornare. Per ora. Qualche anno fa un sacco di nostalgia lo porta in Etiopia, qui rivede amici, compagni di liceo e fratelli. Ma che rabbia prova per l’Eritrea di oggi e che bei ricordi della vita lì dal ‘93 al 2000.  “Sono qui felice con la mia famiglia italiana- confida- ma mi manca tanto un che che non so dirti. Ecco non mi sento libero”. Mihretu, ora lungo soggiornante, lì si oppose al regime. Lui con il papà in divisa militare ha mostrato nervi, muscoli e coraggio. Il regime gli dà sotto. Ne ha subite tante, tantissime, per la sua scelta, ne han subito i fratelli. Così è scappato via. Fuggito dall’Eritrea. Nel sud Sudan, il deserto, la Libia, Lampedusa nel 2006 e lo Sprar di Salerno nel 2008. Avvista Sara e chiede di togliere dall’inferno l’ex moglie e la piccola Ferusa. Arrivano in aereo, breve sosta a Salerno e via in Svizzera. Mihretu è qui e là. Porta la sua Eritrea in tasca, nelle mani, negli occhi. Ama la semplicità della gente e il misto di carni in salsa piccante, lo “zignt”, quel piatto che univa casa laggiù. Rifugiato politico, poeta di tutti i giorni, suona il Krar , un cordofono tradizionale dell’Africa orientale, e canta in tigrino la lingua della sua etnia. Da dieci anni porta la musica d’Africa in giro con altri due musicisti salernitani. La band si chiama “Mihretu Ghide e Panacea”. Suonano l’Africa vista da qui. Cantano l’Africa senza confini. E in quel pezzo autobiografico che ha titolato Zemen, Mihretu canta le sue trentasei ore terribili in mare. Miracolosamente sopravvissuto e poco accanto il migliore amico morto. Mihretu vive così, un po’ qui e un po’ là. Canta la sua Africa con la morte nel cuore. Fa l’interprete in questura. Dà una mano ai connazionali in difficoltà. Ama la sua donna, Sara, che lavora a Crotone. Segue la figlia in Svizzera, i fratelli nel sud Africa, e canta melodiche ninne nanne, afroitaliche, a Lisa. Sempre con la sua Eritrea in tasca, nelle mani, negli occhi, nella voce. E’ un sognatore che non si arrende. Vincerà….

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