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lhan Omar, dal campo profughi in Somalia alla Casa Bianca

A volte la storia sa essere veramente incredibile, anche per come dispone i suoi protagonisti. Nello stesso periodo in cui sui monti dell Nuba, in Sudan, nasceva una ragazza, Mende Nazer, destinata a diventare un’icona globale della lotta contro la schiavitù, a Mogadiscio, in Somalia, veniva alla luce Ilhan Omar, destinata a diventare addirittura una deputata al Congresso degli Stati Uniti.

Basta guararla negli occhi, Ilhan, per rendersi conto del suo coraggio e della sua grandezza. Basta sentirla parlare, ascoltare le sue proposte, non ultima quella di rendere la casa un diritto umano inalienabile per combattere la piaga dei senzatetto, basta conoscere la sua storia e la sua visione del mondo per innamorarsene.

Ilhan ha conosciuto la miseria, la paura, la fame, è stata sfollata per quattro anni in un campo profughi in Kenya prima che la sua famiglia si trasferisse negli Stati Uniti e lei potesse iniziare la sua battaglia per i diritti umani e la dignità della persona. 

Una ragazza sveglia, attiva fin dall’adolescenza nelle file del Partito Democratico, propensa a esercitare il ruolo di mediatrice culturale già al liceo, dove si proponeva, proprio come ora al Congresso, di costruire ponti e abbattere le barriere che separavano, neanche troppo virtualmente, le diverse etnie. 

Del resto, ha spiegato lei stessa in un’intervista: “Al liceo c’erano tensioni tra i vari gruppi etnici: i ragazzi neri nati in America, i neri africani, i latinos, i nativi americani, i nuovi immigrati di varia provenienza, perfino tra i musulmani arabi e quelli dell’Africa orientale. Del resto, se si mettono insieme ragazzi così eterogenei senza creare buoni programmi per costruire relazioni tra loro, inevitabilmente avrai scontri razziali e culturali. Di nuovo, ho cercato di costruire ponti: sapevo che dovevo lavorare per creare una comunità coesa, anche solo allo scopo di rendere a tutti più facile sopravvivere al liceo. Si trattava di trovare studenti che si considerassero come me costruttori di ponti e che lavorassero insieme con gli altri ragazzi, con gli insegnanti, con i dirigenti della scuola, il preside, insomma gli altri. Così abbiamo creato un’atmosfera in cui alla fine mangiavamo insieme, parlavamo a lungo, ci confrontavamo e cercavamo una mediazione tra i conflitti prima che sfociassero nella violenza. Tutto ciò ha reso i miei ultimi anni di liceo un’esperienza molto forte e gratificante”. 

Il messaggio di Ilhan è semplice e profondo: intende l’islam come una straordinaria religione di pace, un contesto basato sulla costruzione del consenso senza populismi di sorta, sul convincimento dell’altro attraverso la forza delle idee e delle proposte, politiche e non solo, sul rispetto reciproco, sulla cultura dell’incontro, dell’amicizia e della condivisione. 

In nessun altro esponente politico americano socialismo, integrazione, multiculturalismo e visione globale dei fenomeni si coniugano con tanta, prepotente bellezza. 

Ilhan è una personalità contemporanea, un campione del mondo multipolare, un simbolo e un esempio di coesione nazionale e di accoglienza trasformata in arricchimento reciproco. Ha saputo trasformare le diversità in punti di forza, ha abbattuto ogni ostacolo con la potenza della sua testimonianza, non si è mai vergognata di se stessa, delle sue origini, delle sofferenze patite, del suo hijab e della sua carnagione scura, del suo sangue africano e della storia dolente e disperata del suo popolo d’origine.

Ilhan non ha paura di utilizzare la parola “identità” perché è un esempio di identità positiva, di libertà, di meraviglia interiore che diventa passione collettiva e, infine, buona politica al servizio della comunità.

Si è proposta di andare a Washington a costruire altri ponti, in una stagione nella quale molti, persino nel suo partito, cercano di innalzare steccati e di contrastare un cambiamento che, invece, è già tangibile. Comunque vadano a finire le Presidenziali del prossimo anno, infatti, non c’è dubbio che l’America sia cambiata in meglio e che nulla potrà essere più come prima. L’America nera, ispanica, femminista l’America delle minoranze che diventano maggioranza camminando mano nella mano, l’America in cui una giovane donna somala e musulmana, nella fase storica in cui imperversano i Trump e i Netanyahu, sostiene con orgoglio un anziano ebreo del Vermont, mettendo sullo stesso piano i massacri subiti dal suo popolo con il dramma della Shoah cui scampò la famiglia di Sanders: questa America costituisce un qualcosa di immenso, un qualcosa che va al di là della politica, delle elezioni, delle contingenze.

Questa America non può essere sconfitta perché nelle sue vene scorre il sangue del futuro, di un mondo che nascerà anche se molti cercheranno di impedirlo, travolgendo le antiche convenzioni, le paure, le titubanze, le difficoltà e le miserie di un tempo destinato a implodere a causa della propria inconsistenza.

E Ilhan, il cui sorriso è travolgente e il cui amore per il prossimo scalda il cuore anche a migliaia di chilometri di distanza, di questa idea di mondo ne è l’alfiere.

Non può candidarsi alla Casa Bianca, non essendo nata sul suolo americano, ma sua figlia le ha promesso che un giorno si candiderà lei e diventerà presidente. A noi piace pensare che possa accadere davvero, che Sanders sia solo un primo passo, che costituisca la scintilla di un movimento che, oggettivamente, va molto oltre la sua persona. Non a caso, il motto della sua campagna è: “Not me. Us”, il che testimonia una consapevolezza che raramente i politici riescono a esprimere con tanta, esplicita franchezza. 

Già me la immagino, fra trent’anni, la figlia di Ilhan alla Casa Bianca, con la sua bellezza afro e la magia di una storia, personale e familiare, in grado di edificare un nuovo “sogno americano”, non più venato di imperialismo ma di mani tese nei confronti del resto del mondo. Quando accadrà, sarà meraviglioso. 

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