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Clementine Pacmogda, dal Burkina Faso all’Italia con l’esempio di Sankara come faro

Dottoressa Pacmogda, Lei oltre ad essere insegnante è anche scrittrice: mi può parlare dei suoi libri?  

«Certo! Con molto piacere. A oggi ho scritto due libri tutti autobiografici. Uno sintitola Basnewende, che significa “Lascia nelle mani di Dio”. L’altro ha come titolo “Wendyam” con sottotitolo La volontà di Dio,che è proprio la traduzione letterale della parola Wendyam. Il primo narra la mia vita, il conseguimento della laurea in Burkina Faso, la mia venuta in Italia e la mia vita da quando sono in Italia, mentre il secondo racconta la mia infanzia, la vita scolastica dalle elementari alla seconda media.

Ho scritti questi racconti per vari motivi. Prima di tutto per rispondere alla domanda frequente del “come sei arrivata in Italia” e del “Come hai fatto per arrivare al dottorato”. Poi ho pensato, visto il clima politico in Italia e nel mondo nei confronti degli immigrati, che mi dovevo fare conoscere.  Vorrei che chi mi legge sappia che gli esseri umani sono tutti uguali. Vorrei che,attraverso la mia storia, i lettori riescano a capire che nessuno è cattivo a prescindere. Nessuno è da odiare e da respingere soltanto perché è originario di un paese diverso del tuo. Volevo far capire che un essere umano è un essere umano nonostante le differenze apparenti. Ho letto di tutto sugli immigrati, soprattutto sull’Africa e sugli africani, e ciò mi ha addolorato tanto. I pregiudizi sono tanti e infondati. Ho pensato che spetta a noi africani presentarci e presentare le nostre abitudini, che non sono diverse da quelle degli altri: abbiamo i nostri buoni e i nostri cattivi, abbiamo una morale e una cultura, abbiamo i nostri ricchi e i nostri poveri (anche se gli ultimi sono più numerosi), sentiamo e risentiamo le stesse cose che conoscono gli altri popoli. Non siamo una razza a parte perché siamo neri, ma esseri umani che lottano come tutti per vivere. Vorrei che questo racconto aiutasse a demolire i muri e a costruire ponti. Ho osservato attraverso i social che l’Africa è pococonosciuta e soprattutto è giudicata severamente da gente che parla senza argomenti plausibili. Non sono l’Africa e non la rappresento, ma vengo dall’Africa, un continente vasto e variegato, e per questo volevo far capire attraverso una testimonianza vera come si vive nel mio piccolo e povero paese di origine.

Infine penso che si tratta di libri che permettonodinterrogarsi sul valore delle piccole cose della vitaquotidiana, che permettono di non dare per scontato quello che abbiamo nella nostra vita. È un libro che non dice che bisogna accontentarsi di quello che si ha, perché l’essere umano cerca sempre di avere di più e non c’è nulla di più normale, però di non sottovalutare quello che abbiamo, ma di usarlo come base e affrontare il resto con calma e serenità. Sono libri che dimostrano che solo la perseveranza e l’ottimismo portano lontano, perché la vita è una lotta. Bisogna capire che sono nocive la rabbia e il voler colpevolizzare tutti, anziché avere la consapevolezza del fatto che uniti possiamo fare tanto. Direi che ho voluto nel mio piccolo mettere l’accento sulla necessità di essere positivi nella vita.

Mi può parlare della sua esperienza di vita in Italia, in particolare dei suoi studi alla Normale di Pisa?

« La vita ha voluto buttarmi subito nella sua scuola dura e cruda, chiedendo di dare il massimo di me. Ho imparato presto che se volevo vivere e vivere bene, dovevo lottare per me senza aspettare nulla da nessuno e ad un certo momento è quello che ho fatto. Credo che questa vita, in un certo senso dolorosa, ha fatto di me la donna che sono oggi. Ognuno nasce, secondo me, con una strada da seguire per realizzarsi. Alcuni hanno le strade già asfaltate, altri devono trovare il modo per asfaltarle con tutta la fatica che ciò comporta. La mia era piena di spine, salite, curve e buchi con a destra e a sinistra dei precipizi. Non avevo quindi tanta scelta e l’ho capito già da piccola. Dovevo andare diritto senza guardare troppo indietro per non cadere. Nel mio secondo racconto, che narra la mia nascita, la mia famiglia, la perdita di mio padre, l’iscrizione quasi miracolosa alla scuola primaria, il percorso travagliato delle elementari, il mio battesimo, le umiliazioni vissute per la povertà e il bullismo, la licenza elementare e il lavoro in una famiglia per sperare di pagare la tassa scolastica della prima media: nessuno avrebbe pensato di vedermi arrivare in Italia per conseguire un dottorato. Sì, ho usato la scuola crudele della vita per istruirmi e per realizzare il mio sogno di diventare una donna intellettuale. Sono arrivata in Italia nell’ottobre del 2008 con una borsa dottorale alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Lì ho studiato Linguistica,specializzandomi in Acquisizione della lingua per i bambini. La Normale è stata uno dei miracoli successi nella mia vita. Lì ho avuto tutto per studiare, perché le condizioni erano ottime, Avevo un tetto, il cibo e tutto il materiale necessario per portare a buon fine la mia ricerca. Ho incontrato alla Normale di Pisa delle persone disponibili a darmi una mano a fare i miei primi passi in Italia e per orientarmi e ambientarmi nel contesto universitario. Mi sono trovata come in famiglia nel Laboratorio di Linguistica. All’inizio non è stato facile,nonostante sia arrivata qua già con un certo livello di studio. Ho dovuto imparare a parlare, perché non sapevo l’italiano, ho dovuto imparare a fare la spesa al supermercato, a fare la lavatrice, a fare uscire l’acqua calda dal rubinetto, ecc. Sono tornata come bambina e per un adulto si tratta di una situazione che crea disagio, imbarazzo. Allora è molto importante sentirsi accolto e sapere che ci sarà qualcuno per darti una mano ogni volta, qualcuno a cui chiedere aiuto. Per questo accogliere è capitale per chi arriva, perché altrimenti uno si perde e c’è il rischio di cadere in mani sbagliate e finire nella delinquenza. Per farla breve, mi sono trovata bene in Italia sia nella vita sociale, sia nelle condizioni di studio e ho discusso la tesi a giugno del 2012 con il massimo dei voti e lode. Sono rimasta alla Normale come assegnista, poi come collaboratrice di ricerca e ora insegno alle superiori».

Poco tempo fa gli assassini di Thomas Sankara sono stati condannati da un tribunale del Burkina Faso; cosa ne pensa di questa sentenza storica?

«Ho vissuto gli anni Sankara da bambina e mi ricordo tante cose fra cui i “pionier”, cioè i bambini in uniformeche sfilavano fieri per il cortile della scuola, la bandiera del Burkina Faso, noi in fila e molto ordinati a cantarel’inno Nazionale. Mi ricordo le “opération mana-mana”, cioè la pulizia delle scuole e dei vari posti pubblici fattacon orgoglio da noi alunni o da cittadini, perché finalmente abbiamo imparato che l’igiene è importante per la salute e soprattutto che non dobbiamo aspettare che qualcuno faccia le cose per noi. Mi ricordo le piccole dighe per trattenere l’acqua, che nascevano quasi ovunque. Mi ricordo i rifiuti raccolti in una fossa per essere usati per i campi al momento opportuno. C’è stato un cambio di mentalità profonda in quel periodo e la volontà di fare tutto da soli senza aspettare aiuti da nessuno. Avevamo imparato a produrre e consumare i nostri prodotti. Avevamo imparato a vivere degni nella nostra povertà, lottando per migliorare le nostre vite. Poi quando avevo circa 10 anni, lui un pomeriggio è stato assassinato e abbiamo realizzato quanto avevamo fatto di strada e quanto avevamo perso tutto in un pomeriggio indimenticabile. Durante l’adolescenza, con i miei compagni di scuola, ci sentivamo sankaristi e volevamo cambiare il nostro paese come aveva potuto iniziare lui. Crescendo, però, ci siamo accorti che pochi potevano essere come Thomas Sankara e che a volte manca una sola persona in una famiglia o in questo caso in un paese per rovinare tutto. L’amara consapevolezza faceva nascere una certa rabbia e un senso di impotenza che sinceramente porto dentro fino ad oggi. La sentenza è quindi veramente storica, visto che i fatti sono successi nel 1987 e solo ora qualcuno è stato giudicato colpevole e condannato. Manca la parte internazionale del processo, perché sappiamo che la morte di Sankara è stata un complotto internazionale, però intanto gli esecutori materiali e i mandanti nazionali sono stati giudicati e non è poco. Penso sia un primo passo molto importante nonostante tutto, perché Sankara, con tutto quello che è stato, che ha fatto e per come è morto, non meritava il silenzio».

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