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Fenomeni sociali e giustizia

Che cosa si intende per “conflict-affected areas” e “conflict minerals”

Tra i paesi interessati la Rd Congo, poiché è lì, in particolare nelle regioni dell'est del Paese come il Nord Kivu, che si trova la maggior parte dei giacimenti minerari a livello mondiale

Esistono minerali, come il coltan, il cobalto o i c.d. 3TG (tin, tungsten, tantalum and gold, ovvero stagno, tungsteno, tantalio e oro), che sono classificati “conflict minerals” per il fatto di essere estratti in aree in cui sono in corso conflitti armati. Quando si parla di “conflic-affected areas” e di “conflict-minerals” viene in mente subito la Repubblica Democratica del Congo, poiché è lì, in particolare nelle regioni dell’est del Paese come il Nord Kivu, che si trova la maggior parte dei giacimenti minerari a livello mondiale (basi pensare che l’80 % delle riserve di coltan e il 55% del cobalto in commercio sono collegati alla Repubblica Democratica del Congo). Ma è anche in queste regioni in cui è in corso un conflitto che si protrae ormai da anni.
Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha in più occasioni associato l’estrazione e il commercio di tali minerali alla perpetuazione della guerra, essendo l’una la conseguenza del primo. Non parliamo però dell’estrazione e del commercio legali, ma delle attività illecite legate ai “conflict-minerals”, ovvero quelle che ruotano attorno alle miniere artigianali, che sono la stragrande maggioranza in quel Paese poiché quelle legali, cioè quelle regolamentate, sono poche e non riescono a rispondere al fabbisogno di un numero di individui che va dai 110.000 ai 150.000, poiché questi sono i minatori impegnati nelle attività estrattive nelle miniere artigianali.
Da quando è scoppiata la richiesta di batterie al litio e di altri componenti elettronici fabbricati con questi minerali, l’attività estrattiva non regolamentata si è moltiplicata esponenzialmente in queste aree, sostituendo un’economia che prima era basata sull’agricoltura e sulla pastorizia. Il mercato digitale ha stravolto l’economia di queste regioni che vedono sfruttati migliaia di minatori da parte delle milizie che controllano questi territori e che traggono vantaggio da questi traffici, poiché li gestiscono e si finanziano per compiere attività militari e rifornirsi di armi. E’ un’economia di guerra.

Dunque vi è un circolo vizioso in cui i gruppi armati sfruttano allo stesso tempo manodopera e minerali rari e questo, come giustamente ha fatto osservare in più occasioni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, porta alla perpetuazione del conflitto. Infatti, se si interrompesse il processo estrattivo e il commercio di minerali, i signori della guerra non sarebbero più in grado di finanziarsi e probabilmente il conflitto terminerebbe. Il problema è che è pressoché impossibile interrompere l’attività estrattiva, poiché essa è necessaria per la sopravvivenza delle comunità locali, che non hanno altra attività lavorativa se non quella nelle miniere artigianali.
Numerose regolamentazioni internazionali hanno cercato di interrompere un problema di difficile soluzione, lo stesso governo congolese ha emanato più leggi, tra cui una importante nel 2012, per regolamentare la catena di approvvigionamento di questi minerali, la cui illiceità estrattiva e commerciale vizia tutta la catena di approvvigionamento che sale fino alle multinazionali, che sono le ultime destinatarie del prodotto.
Tuttavia, resta un problema difficilissimo da risolvere per più ragioni. I signori della guerra controllano vaste parti di territorio da molto tempo e sono difficili da sconfiggere. Le “conflict-affected areas”, che sono anche quelle in cui sono presenti le miniere illegali, occupano una parte di territorio dove lo Stato è inesistente, sia perché incapace di contrastare le milizie, che sono decine, sia perché è pressoché impossibile applicare la legge e farla rispettare in un territorio che è grande 8 volte l’Italia. E’ poi di fatto impossibile sottrarre centinaia di migliaia di minatori, tra cui moltissimi bambini, ad una vita di schiavitù, non potendo offrire loro alcuna alternativa di guadagno in quei remoti villaggi in cui sono confinati.
La catena di approvvigionamento è inoltre particolarmente tortuosa poiché vi sono diversi passaggi prima di arrivare al grande brand che commercializza il prodotto finito, per cui la tracciabilità si perde. Si parte dal minatore, detto creuser, che vende al compratore locale, négotiant, che a sua volta vende all’intermediario, detto comptoir, quasi sempre in affari con le milizie e colluso con le autorità locali, il quale poi vende il minerale al compratore straniero, che generalmente gode di importanti

appoggi, e così via fino alla grande multinazionale. Quest’ultima ha la sua responsabilità poiché, se non adotta standards rigorosi di due diligence nella catena di approvvigionamento, garantendo di rifornirsi di minerali “conflict free”, si rende anch’essa responsabile delle gravi violazioni dei diritti umani a carico dei minatori, le cui condizioni di lavoro sono assimilabili alla schiavitù, sia che agiscano poiché costretti dalle milizie, sia che scelgano volontariamente di sottoporsi allo sfruttamento pur di guadagnarsi da vivere, condizione che comunque implica una situazione di costrizione. La riduzione in schiavitù si sostanzia nelle numerose ore di lavoro tutti i giorni, anche 14 ore, in condizioni di rischio costante per la mancanza di strutture sicure in cui lavorare e di misure di sicurezza, per non pagare della paga, tra 1 e 2 dollari al giorno.
La regolamentazione esistente a livello internazionale non è vincolante, poiché consiste prevalentemente in linee guida e in codici di condotta, come le OECD MNCs Guidelines del 2011 e la OECD Due Diligence Guidance for Responsible Suplly Chains of Minerals from Conflict-Affected and High-Risk Areas dell’anno successivo. Ma vi sono anche regolamentazioni delle Nazioni Unite come il Global Compact e i Guiding Principles o la Tripartite Declaration dell’ILO. Tutte queste sono normative non vincolanti che chiedono alle multinazionali di verificare che i minerali di cui si riforniscono non siano “conflict minerals” e che pertanto, non contribuiscano a perpetuare il conflitto, specie nella Repubblica Democratica del Congo, mediante l’adozione di tutta una serie di buone pratiche e standards condivisi che assicurano il rispetto dei diritti umani.
Ora, l’Unione Europea ha adottato una Direttiva importante, la Corporate Sustainability Due Diligence Directive n. 2024/1760, che è vincolante per tutti gli Stati membri e che fissa delle pratiche responsabili di due diligence capaci di prevenire, mitigare e riparare violazioni dei diritti umani nella catena di approvvigionamento, anche per ciò che riguarda i minerali rari. Si applica a tutte le compagnie con sede nell’Unione Europea, pur avendo effetti extraterritoriali, poiché si estende anche ad aziende con sedi all’estero, purché svolgano una parte consistente

della loro attività nell’Unione Europea. Questa è una bella notizia, ma dobbiamo sperare che regolamentazioni stringenti come quest’ultima non si rivelino alla fine detrimentali per le comunità locali interessate dallo sfruttamento, che vedrebbero venir meno l’unica loro fonte di sostentamento, creando di fatto un embargo. In queste terre l’estrazione sembra un male necessario, un male che prolunga la guerra. In un circolo vizioso, la guerra si autoalimenta, prolungando la sofferenza di migliaia di persone.

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