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Burundi, il governo pretende di conoscere la composizione etnica delle Ong

Gli accordi di pace e di riconciliazione di Arusha del 2000 avevano previsto che nelle istituzioni statali e in particolare di sicurezza del Burundi dovesse esservi un sistema di bilanciamento delle etnie, attraverso “quote”. Un intento nobile, per impedire che un gruppo o l’altro, hutu o tutsi, prendesse il sopravvento, con le tragiche conseguenze immaginabili.

Il criterio delle “quote etniche” venne inserito anche nella Costituzione e, nel 2017, anche in una legge sulle Ong. E qui sono iniziati i problemi.

Né gli accordi di Arusha né la Costituzione fanno riferimento alle “quote etniche” nel settore privato. Ciò nonostante, il 28 febbraio scade l’ultimatum del ministro per la Formazione patriottica e gli Affari interni, Pascal Barandagiye: entro quella data le Ong internazionali che operano in Burundi devono fornire un elenco dei loro impiegati, indicando accanto al loro nome e cognome l’etnia di origine.

Di fatto, dal settembre 2018 la maggior parte delle Ong internazionali si è vista sospendere le attività, con la scusa di una nuova registrazione. Tra dicembre 2018 e aprile 2019 diverse di loro (tra cui Handicap International e Avvocati senza frontiere) hanno preferito chiudere.

Il pretesto delle “quote etniche” – agitato dal governo senza aver dato alcuna spiegazione su cosa farà dei dati sensibili riguardanti il personale delle Ong e su come ne sarà garantita l’incolumità –-potrebbe essere il colpo di grazia.

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