Di cosa parliamo quando parliamo d’Africa? Qual è lo stato dell’arte in Italia sulla reale e concreta conoscenza del continente?
Al di là di una stampa spesso disattenta e superficiale (con poche eccezioni) e ben oltre i facili proclami di questo o quel “piano” per l’Africa proposto dal governo di turno, esiste in Italia una rete di autorevoli ricercatori e studiosi universitari che da oltre 14 anni si occupa d’Africa. Una rete aperta a tutte le discipline che si concentrano nello studio del continente africano.
Sin dai primi incontri della ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI AFRICANI IN ITALIA (Asai) dedicati agli studi italiani sull’Africa, l’intento è sempre stato quello di fare il punto sullo stato dell’arte della ricerca.
A partire dal primo incontro a Napoli nel 2010 “Studi italiani sull’Africa a 50 anni dall’indipendenza” fino al prossimo appuntamento “In cerca di appartenenza: comunità e divisioni in Africa” previsto dal 12 al 14 settembre prossimo presso l’università degli studi di Messina (che solleva il tema delle appartenenze, del fare e disfare comunità di fronte a segnali di disgregazione del tessuto sociale a livello globale) l’approccio di uno sguardo esterno sull’Africa di Asai è sempre accompagnato da una visione dall’interno, con un’apertura a relatori africani. Oltre 100 studiosi che presenteranno le loro relazioni all’interno di 30 panel.
Un network di accademici che studiano l’Africa e le sue popolazioni dentro e fuori dal continente da profili disciplinari differenti, costituisce un bacino di expertise di cui gli enti pubblici, i media, la scuola, ecc. potrebbero avvalersi nell’ottica di fare sistema. Colmare il vuoto di conoscenze a vari livelli è un presupposto essenziale per promuovere relazioni costruttive con i partner africani all’insegna della parità
Peccato che anche l’ultimo Forum on China-Africa Cooperation Focac di Pechino – evento cardine per la geopolitica africana- sia stato praticamente ignorato dalla stampa italiana.
“Io credo che i mezzi d comunicazione di massa italiani sono davvero poco presenti nell’informazione sul continente africano e i giornalisti in generale, certamente con alcune eccezioni, sono poco informati sull’Africa- ci racconta Francesca Declich Presidente di ASAI. Recentemente ad esempio ho sentito una ottima trasmissione sulla RAI (la prima così complessa e articolata che io abbia mai intercettato) sulla guerra del Rwanda come parte della terza guerra mondiale svoltasi in Africa centrale.
Mi sono stupita però che non si sia detto che un intervento internazionale fatto per tempo dell’esercito dell’ONU avrebbe potuto impedire il genocidio e che le politiche di immagine di vari Paesi, inclusi gli USA, hanno portato al non intervento lasciando che il genocidio si consumasse. Non mi sembrava una notizia di poco conto da dare. Ma quanti, tra i non specialisti, sono informati su questo?”
“Gli africanisti hanno una conoscenza approfondita e di prima mano del continente africano frutto di un’assidua frequentazione delle aree del paese di cui sono specialisti. L’uso di un linguaggio e categorie appropriati potrebbe contribuire a una corretta comunicazione. È sorprendente come anche giornalisti sperimentati continuino a parlare di “etnia africana” veicolando la visione di società africane “primitive” ci racconta Daniela Melfa – Vicepresidente ASAI. “Analogamente, si parla di “Paesi in via di sviluppo” laddove alcuni stati africani in realtà rientrano tra le economie più dinamiche al mondo in termini di Pil. La parola degli storici africanisti sarebbe secondo me importante per restituire una memoria della storia coloniale scevra da pregiudizi e condivisa con gli immigrati e i loro figli nati (e integrati) in Italia.”
Certamente il tema di una articolata, chiara e corretta informazione è da sempre “il tema caldo” quando si parla d’Africa da noi. Oggi però – con la rinnovata popolarità che i continente sta avendo presso il grande pubblico ( anche per lo sbandierato e discutibile “famoso Piano Mattei”) l’Italia ha e potrà davvero avere un ruolo nel progresso dei 54 paesi del continente?
“Questo dipenderà dal se l’Italia sarà capace di fare qualcosa di incisivo- osserva Francesca Declic presidente Asai -ma soprattutto, se saprà rivisitare e vedere positivamente la nostra millenaria relazione con i paesi africani.
L’interazione e lo scambio culturale sono sempre molto più produttivi che la chiusura e l’esclusione. È anche importante vedere il rapporto con i paesi africani in maniera decolonizzata e questa è una sfida per un paese come l’Italia che su queste cose ha riflettuto poco, al di là della cerchia di studiosi e studiose che fanno il possibile anche per informare e formare le giovani generazioni all’università”
“L’Italia può contribuire allo sviluppo di settori chiave di comune interesse quali le energie rinnovabili affrontando problemi di portata globale come il cambiamento climatico -ci dice Daniela Melfa – Vicepresidente ASAI. “Sarebbe tuttavia istruttivo ribaltare la prospettiva chiedendosi se l’Italia può beneficiare dell’apporto dell’Africa e degli africani. L’Africa ha la popolazione più giovane del mondo con un’età media di vent’anni, rispetto a una media globale di trenta, mentre l’Italia è il paese più vecchio d’Europa. Non soltanto vivere in una società di anziani non è sostenibile dal punto di vista previdenziale, ma l’aspettativa di miglioramento e la speranza che i giovani portano con loro costituiscono un capitale sociale importantissimo di cui l’Italia potrebbe avvantaggiarsi. “