vai al contenuto principale

Via dall’Africa. E dopo che ne è di donne e minori?

Arrivare in Italia dai Paesi sub-sahariani non è certo un’impresa facile. Quello che porta uomini, donne e ragazzi di ogni età fuori dall’Africa fino a raggiungere le nostre coste è un viaggio lungo e non privo di pericoli e insidie.

Lo è ancora di più se si è donne. O minori. Due categorie per loro natura esposte a maggiori rischi personali rispetto ad altre. Sia nel corso del viaggio che durante la permanenza nei centri di raccolta in Libia. Per molti di loro, inoltre, il destino sembra segnato.

Le giovani donne reclutate in Nigeria da organizzazioni mafiose, che pagano loro il viaggio mettendo le spese a carico della famiglia sotto forma di un prestito da restituire sfruttando il lavoro delle figlie – come sappiamo da più fonti di stampa – subiranno fatalmente lo stupro dei loro accompagnatori e, una volta arrivate, in Italia sono obbligate senza scampo a prostituirsi. Impossibile ribellarsi. Chi lo fa, patisce violenze e mutilazioni o mette a rischio la propria la vita. Poche riescono a sottrarsi alla schiavitù, con l’aiuto di associazioni di volontari e enti religiosi che offrono assistenza e protezione. Da alcune di loro che si sono emancipate, grazie all’intervento di tali organizzazioni, conosciamo le storie di tutte. La miseria delle famiglie; l’inconsapevolezza della sorte che le arrende; il vodoo ai cui riti tribali vengono sottoposte in Africa e che, incutendo loro un terrore cieco, le consegna irrimediabilmente nelle mani dei loro aguzzini; la rassegnazione, la paura e la speranza ritrovata in un futuro, per quanto ancora incerto, che faticosamente riescono a intravedere con l’ausilio di chi presta loro soccorso.

 

Siamo inermi, purtroppo, di fronte a situazioni che si verificano altrove e che non sappiamo come arginare a distanza. Ma nella lunga trafila di eventi che dalla Nigeria porta queste giovani donne ignare nelle strade di periferia delle nostre città, c’è un qualche anello debole da flettere per provare, se non a interrompere, almeno a ostacolare un ignobile traffico umano di cui le ragazze – e noi tutti – subiamo le conseguenze?

 

L’unica occasione per farlo è, evidentemente, appena giungono in territorio italiano. Ci sono segnali inequivocabili della loro condizione di soggezione, osservati più volte e ben descritti da chi presta opera di assistenza agli sbarchi. Sono giovani donne che arrivano magari con segni di violenza sul corpo e senza scarpe, ma con un telefonino in mano. Vi sono registrati numeri di telefono di chi le prende in carico, spacciandosi per un parente o un amico. La stampa ne ha parlato a più riprese, informando del fenomeno con molti particolari.

Le misure messe in campo in Italia per fermarlo, però, non sono altrettanto dibattute. Tolti gli interventi a posteriori, per rimediare a circostanze drammatiche, pare che nessuno si preoccupi – di fronte all’emergenza degli sbarchi, con i drammi del soccorso in mare e, poi, il problema del sovraffollamento dei Centri – di prendere in considerazione le diverse situazioni per procedere a un trattamento personale mirato, che avvenga tempestivamente, prima dell’accoglienza nei Centri o in coincidenza immediata con essa.

Né viene prestata maggiore cura ai minori non accompagnati, che solo in minima parte – come rivelano le statistiche – usufruiscono dell’importante istituto dell’affido familiare, mentre sembra inarrestabile il fenomeno della scomparsa dai Centri che li fa finire nella rete criminale. Piccoli schiavi, venduti o sfruttati, la cui vita quasi volutamente ignoriamo, distratti dalla quotidianità della nostra.

Gli organi di stampa non informano a sufficienza né delle dimensioni del problema né del trattamento da riservare a questi casi speciali, dove maggiore è la vulnerabilità e più alto l’effetto deteriore sul piano sociale che ne consegue.

Donne e minori si confondono nella massa dei migranti e si perdono nei canali di transito verso le loro destinazioni. Quali siano, sembra, in fin dei conti, non interessare nessuno. L’attenzione dell’opinione pubblica – in assenza di una messa a fuoco dell’argomento da parte dei media che la sensibilizzi – è quasi interamente assorbita dall’impatto mediatico degli arrivi, dalla questione preliminare dei salvataggi e dalle polemiche sulla redistribuzione dei migranti.

Il dopo resta indefinito, affidato al caso. Come se la sorte delle singole persone non ci riguardasse più, esauriti questi primi compiti. Salvo poi sorprenderci per quello che la cronaca racconta o rammaricarci per le situazioni di disagio e di degrado che si registrano in certe aree urbane e nelle zone periferiche e che sono fonte di una latente conflittualità sociale, dagli esiti incerti.

Abdicare alla responsabilità del dopo, e non curarsi di ciò che accade a giovani africane e minori sul nostro territorio – trattando con indifferenza questo aspetto della questione –  non solo penalizza persone già in difficoltà e le emargina, contravvenendo a ogni principio etico, ma crea un danno all’intera collettività nazionale esponendola al rischio di una mancata tutela, da parte delle Istituzioni, delle regole di vita che ne hanno permesso il civile sviluppo nel corso degli anni e il progresso.

Quello “stile di vita europeo” – per citare la definizione della Von der Leyen – fatto di un paradigma di valori irrinunciabili, sedimentati nella coscienza collettiva, cui la civiltà europea deve la propria identità e le ragioni della sua sussistenza futura. Con le buone pratiche che a tale paradigma conseguono. Fra cui la cura delle persone, da proteggere e accompagnare verso il migliore inserimento sociale possibile. Perché se si perde il filo delle vite altrui, soprattutto delle più deboli e indifese – come è il caso, fra altri, delle donne e i minori arrivati sul suolo italiano dall’Africa – anche il filo delle nostre vite rischia di ingarbugliarsi.

Torna su