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Nigeria, 5 anni fa il rapimento delle studentesse di Chibok. Ozor: 112 ancora nelle mani di Boko Haram

Cinque anni fa in Nigeria, nella notte tra il 14 e il 15 aprire del 2014, venivano trascinate via a forza dall’istituto che le ospitava a Chibok, nello stato del Borno, 275 studentesse. A rapirle il gruppo terroristico Boko Haram.  Il mondo si mobilitò per loro rilanciando l’hashtag #BringBackOurGirls, che coinvolse milioni di persone.  Un fenomeno social che si è poi trasformato in un’importante campagna per i diritti umani delle donne nigeriane  che non si è limitata a chiedere la liberazione delle ragazze (la maggior parte è tornata alle proprie famiglie) ma si è evoluta in un movimento che oggi lancia un nuovo appello per le 112 ancora nelle mani del gruppo terroristico.
Ne abbiamo parlato con l’attivista Florence Ozor, tra le fondatici di Bring back our girls.

Sono passati cinque anni dal rapimento delle ragazze di Chibok. Cosa ricorda di quei giorni?
“Oggi, 5 anni fa, 275 ragazze che andavano a scuola con la speranza di contribuire allo sviluppo di loro stesse, della famiglia e della nazione venivano rapite. Oggi, 5 anni dopo, 112 rimangono prigioniere di Boko Haram. Oggi, come 5 anni fa, continuiamo a fallire come nazione. Oggi, come 5 anni fa, il mondo continua a essere assente. Oggi come ieri gli scolari sono vulnerabili, a Damasak gli ultimi bambini rapiti”.

Eppure grazie a Twitter tutto il mondo ha saputo delle studentesse rapite in Nigeria. Come è nato l’hashtag #BringBackOurGirls?

“L’idea è nata dalla pura disperazione su cosa fare per riportare a casa le nostre ragazze. Avendo aspettato inutilmente un’azione governativa, il ricorso ai social media è stato impulsivo più che cosciente. A una delle nostre prime iniziative l’ex ministro all’Istruzione della Nigeria, Oby Ezekwesili, chiese con forza al governo di “riportare a casa le nostre figlie / ragazze”, qualcuno nel pubblico twittó l’hashtag, il resto è storia. Il fatto che sia diventato virale su Twitter è la testimonianza che abbiamo un’umanità comune e le persone di buona coscienza risponderanno sempre alle grida di chi è nel bisogno”.

Senza #BringBackOurGirls il governo avrebbe profuso gli stessi sforzi per salvarle?

“Sono convinta che l’azione governativa sarebbe stata più spregiudicata se la campagna non fosse iniziata. Non dimentichiamo che le studentesse di Chibok non erano le prime a essere state rapite da Boko Haram. In realtà, in centinaia erano stati sequestrati o assassinati prima di questo episodio. L’enorme consapevolezza internazionale creata dalla campagna ha spronato il governo all’azione, dopo aver a lungo negato che il rapimento fosse avvenuto”.

Finora 163 studentesse sono state liberate. Che futuro le aspetta?

“Prima di tutto mi preme sottolineare che se i familiari delle ragazze che sono state liberate hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, per le famiglie le cui figlie rimangono prigioniere il dramma non è ancora finito. Per loro ci impegniamo a continuare la nostra battaglia. Per quanto riguarda le studentesse liberate attualmente vivono in una casa sicura sotto la protezione delle forze di sicurezza nigeriane. Sul loro futuro, noi, il governo e la società civile dobbiamo unire le forze per garantire che continuino a essere al sicuro, protette e serene nell’immaginare la loro vita. Non sono vittime, ma le Malala della Nigeria e del mondo”.

Resta fiduciosa che possano essere salvate tutte?

“La campagna è guidata dalla speranza e dalla ricerca della giustizia come prima condizione della nostra comune umanità, è stata la nostra linea anche quando eravamo ridicolizzati da chi riteneva che nessuna delle nostre ragazze sarebbe tornata. Il tempo e la determinazione hanno dimostrato che avevano torto e noi eravamo nel giusto. Ma mentre ci concentriamo incessantemente su questo, vediamo anche la nostra campagna in un contesto più ampio come metafora di tutte le vittime di sequestri nel Nord Est e dell’insicurezza in tutto il paese. Crediamo che le nostre ragazze siano vive e possano essere salvate anche se la situazione è molto complicata. Sarà difficile ma restiamo risoluti nel nostro impegno verso le famiglie a cui abbiamo promesso che non ci fermeremo finché tutte loro non saranno ricondotte a casa.

Boko Haram rappresenta ancora un pericolo per loro e per le comunità di alcune aree della Nigeria. Qual è la situazione al momento?

“La situazione nel nord-est della Nigeria è ancora molto precaria e si sono verificati molti altri episodi di rapimenti, oltre alla prosecuzione della prigionia delle restanti studentesse di Chibok. La crisi nel Nord Est è l’effetto di anni di abbandono della popolazione da parte dei governi che si sono succeduti. Boko Haram ha iniziato in piccolo, quasi furtivamente, se non in modo innocuo, fin dal 2008. Il governo non è stato in grado di colmare il divario con il popolo che si è sentito abbandonato a se stesso. Da lì è iniziato l’indottrinamento di cittadini bisognosi di aiuto. Boko Haram ha ucciso più di 20.000 persone e ne ha sfollato almeno 2 milioni. Le mine disseminate ovunque hanno ucciso 162 persone in due anni e ferito 277.  L’azione distruttiva e omicida di Boko Haram è sempre più spregiudicata e  il governo appare impotente di fronte alla loro azione. Sembra che dia più importanza alla politica che allo sviluppo del Paese e gli insorti prendono il sopravvento mentre la popolazione continua a subire violenze e soprusi”.

In che modo si può limitare l’azione di Boko Haram?

“Credo fermamente che sia fondamentale agire sui più giovani. L’istruzione rimane il più grande antidoto alla povertà e alla mancanza di opportunità. L’impatto maggiore del reclutamento e proprio sulla popolazione sotto i 25 anni. La gente ha però paura di mandare i figli a scuola, in particolare nel Nord-Est dove la maggior parte delle famiglie rifiuta di registrare le loro bambine nel sistema scolastico. Per contrastare tutto questo è necessaria una radicale e pervasiva campagna del governo, soprattutto tra le fasce più deboli, fare da argine alla diffusione della cultura che vuole imporre Boko Haram prima ancora di sconfiggere il flagello dell’insurrezione nella regione”.

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