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Mende Nazer, il coraggio di una donna schiava nel cuore dell’Europa

Mende in lingua nuba significa gazzella e la storia che sto per raccontarvi è davvero al di là di ciò che un occidentale potrebbe immaginare. 
Lessi la tragedia di Mende Nazer quindici anni fa, in un libro autobiografico intitolato “Schiava” che mi lasciò letteralmente senza parole. È il dramma di una bambina sudanese cresciuta sui monti della Nubia, in una delle zone più remote e affascinanti della Terra, che all’età di dodici anni viene rapita nel corso di una razzia ad opera di una banda di predoni arabi, mentre il suo villaggio viene dato alle fiamme e molti degli abitanti brutalmente assassinati, e venduta a una donna cinica, spregiudicata e senza scrupoli, Rahab, che vive in una bella casa a Karthoum. 
Immaginate una bambina italiana che va in prima media, con i suoi sogni, le sue speranze, la sua dolcezza e i primi atteggiamenti da signorinella. Immaginate questa bambina, prossima a entrare nell’adolescenza, che una notte vede la sua casa bruciata da dei farabutti, poi viene stuprata con inaudita ferocia dai suoi rapitori, trovandosi completamente sola in mano a dei delinquenti pronti a sgozzare chiunque pur di portare a termine i propri loschi traffici. Immaginate questa bambina picchiata e sottoposta per anni a ogni sorta di angheria e poi ceduta dalla sua padrona alla sorella, che invece vive  a Londra, nel cuore dell’Occidente ricco e democratico. Ebbene, è questo l’aspetto che mi ha maggiormente colpito del racconto della Nazer: la sua riflessione sull’importanza e il valore della libertà, che noi diamo erroneamente per acquisito e per scontato quando, invece, non lo è affatto, così come non è tollerabile che una donna possa ritrovarsi a neanche vent’anni a vivere in schiavitù in una delle città più ricche, libertarie e importanti del mondo. Certo, per fortuna a Londra è riuscita a scappare, a mettersi in salvo e a ritrovare un minimo di serenità interiore, a dimostrazione che la nostra cultura e la nostra civiltà, senza voler teorizzare alcuna superiorità rispetto alle altre, offrono comunque alcune garanzie in fatto di tutela dei diritti umani che altrove, oggettivamente, non esistono. 
Se ho cercato di calare nella nostra realtà la storia di Mende è perché altrimenti si fa fatica a credere che tutto questo possa essere vero, che possa essere accaduto realmente, che una ragazzina possa essere stata ripetutamente picchiata dalla sua aguzzina per i motivi più stupidi, costretta a mangiare in una ciotola a parte gli avanzi dei padroni e che possa essere stata considerata alla stregua di merce, un oggetto da scambiare e spedire come un pacco postale in un altro paese e in un altro continente. Il tutto sotto lo sguardo indifferente di noi occidentali, che lasciamo che in Africa si consumino barbarie come queste senza muovere un dito, se non attraverso una cooperazione internazionale francamente insufficiente e la meritoria azione delle ONG e di quella parte del mondo cattolico che è sempre pronto a venire in soccorso degli ultimi della Terra. 
Il guaio è che ci indigniamo sempre dopo, quando è tardi, quando l’abisso si è materializzato e chissà quante altre bambine e ragazze come Mende sono costrette a subire oggi ciò che lei ha subito per anni a cavallo fra il vecchio e il nuovo millennio. E se questa donna straordinaria non avesse avuto il coraggio di raccontare la sua storia, probabilmente, non esisterebbe neanche quest’articolo. Saremmo rimasti indifferenti a tutto, arroccati come siamo nella nostra torre d’avorio, a sbraitare contro i migranti che sono troppi e ci rubano il lavoro mentre questi poveri cristi tentano, con ogni mezzo, di scappare da un inferno che quasi nessuno racconta e del quale ci accorgiamo solo quando ci rendiamo conto che non si può fermare in alcun modo la loro volontà di ribellarsi a tanta disperazione. 
 
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