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La sterile polemica sul Franco Cfa

La questione del franco CFA è stata utilizzata in modo strumentale dal Ministro Di Maio e dai suoi colleghi 5stelle, con il chiaro intento di distogliere l’attenzione da temi di cui preferiscono non si parli, a cominciare dalla preoccupante recessione dell’economia italiana.
L’attacco alla Francia ha l’evidente obiettivo di alzare un gran polverone e spostare i riflettori verso un nuovo nemico, in questo caso reo, “con le sue politiche post colonialiste in Africa, di alimentare povertà e migrazioni”.
Peccato che tutto venga ridotto come al solito a meri slogan elettorali, e che si metta più attenzione ad evitare strafalcioni con i congiuntivi piuttosto che ad elaborare il contenuto delle proprie affermazioni. Peccato perché quello dell’Africa è un tema profondo che merita ben altro approccio.
Innanzitutto, la questione del Franco CFA non c’entra davvero nulla con le migrazioni. Basta infatti guardare i dati degli sbarchi in Europa per osservare che la grandissima maggioranza dei migranti provengono da paesi che non adottano il Franco CFA. Quella della moneta in uso in 14 ex colonie francesi è una questione che è diventata sempre più centrale negli ultimi anni nei rapporti tra la Francia e tali Paesi. Indubbiamente, se da una parte il sistema monetario ha offerto in tutti questi anni una certa stabilità finanziaria evitando ai Paesi che ne fanno parte di essere travolti dall’inflazione, dall’altra, nei fatti, ha permesso alla Francia di mantenere un ruolo chiave nelle dinamiche economiche di tali governi. Ma un punto non va sottovalutato, e cioè che si tratta di un sistema “volontario” dal quale i paesi coinvolti possono ritirarsi qualora decidessero di farlo.
Ma il tema dei rapporti tra Europa e Africa, le radici dei flussi migratori e la situazione economica e sociale che caratterizza molti Paesi africani è un tema complesso che va di certo al di là della bontà o meno del franco CFA.
Se c’è ancora un approccio ed un atteggiamento “coloniale” verso l’Africa questi oltrepassa le dinamiche franco-africane e riguarda molti Paesi a cominciare da Cina e Stati Uniti che attraverso rapporti commerciali e finanziari chiaramente squilibrati rallentano la crescita dell’Africa minandone il futuro delle giovani generazioni.
Ci sono a mio avviso alcuni temi che l’Italia e l’Europa devono affrontare insieme ai partner africani e che sono più urgenti di altri:
– gli impatti del cambiamento climatico che spingeranno milioni di africani a lasciare la propria terra e che potrebbero colpire il PIL continentale tra il 2 e il 4% da qui al 2020 e tra il 10 e il 25% nel 2100;
– l’insicurezza e i conflitti che continuano a minare aree regionali importanti, dal Sahel ai Grandi laghi;
– le disuguaglianze sociali che aumentano sempre più e la mancanza cronica di posti di lavoro;
– Il ritorno del debito pubblico che rischia di strozzare alcuni paesi (come il Mozambico, che ha dichiarato di essere in default nel 2017).
Sono questi i fattori, e altri ancora, che concretamente spingono e spingeranno nei prossimi anni i giovani a prendere rischi su rotte migratorie pericolose. E se i porti europei saranno chiusi o aperti questo influirà sul numero dei morti nel Mediterraneo ma non servirà di certo ad affrontare concretamente il complesso fenomeno migratorio.
Le politiche da mettere in campo sono ben altre e richiedono impegno, determinazione e tempo.
Il primo passo è il rafforzamento del partenariato politico tra Europa e Africa, che negli ultimi anni è stato a dir poco debole.
Vanno aumentati gli investimenti pubblici e privati sostenibili per creare posti di lavoro, soprattutto per giovani e donne. Si potenzi e si indirizzi ai settori a più alto potenziale di creazione di posti di lavoro il piano di investimenti esterno dell’Unione europea dedicato all’Africa.
Si rispettino gli impegni presi dai precedenti governi di centrosinistra rispetto agli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile (SDGs) e per aumentare gli aiuti pubblici allo sviluppo (APS), specialmente per i paesi più fragili. È paradossale invece osservare come, contrariamente a quanto promesso nel disegno di legge del DEF, l’attuale governo abbia adottato una finanziaria che riduce drasticamente i nostri aiuti.
Ci si impegni contro il cambiamento climatico rispettando gli impegni finanziari presi nell’accordo di Parigi di erogare 100 miliardi di dollari all’anno da qui al 2020 ai paesi del Sud, in maggioranza africani.
Ed infine si investa nell’educazione e nella scuola, facilitando anche percorsi di studio all’estero che permettano ai giovani africani di formarsi nelle migliori università europee per poi tornare nei loro Paesi di origine e contribuire al loro sviluppo sostenibile. I perenni conflitti che caratterizzano importanti regioni africane da anni tengono lontano dalla scuola intere generazioni. Penso alla Repubblica Democratica del Congo ed al perenne conflitto derivante dallo sfruttamento incondizionato delle risorse minerarie da parte di varie multinazionali occidentali, e non solo.

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