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La mia esperienza in Uganda. Perché e quale è stato il primo impatto

Frequentavo ancora la Facoltà di Medicina e Chirurgia. Era sul finire degli anni 80. Vicino alla agnognata laurea, dovevo decidere cosa fare da grande, in altre parole dovevo decidere il corso di specializzazione che avrei fatto dopo la laurea.
Ho un ricordo vivido di quei giorni, come se fosse ieri. Ho sempre pensato alla mia futura professione di medico come a un servizio sociale, non solo medico. Quindi, senza pensarci molto, la specializzazione che mi sembrava più vicina a questo scopo era quella di Malattie Infettive e Tropicali, anche se molto poco remunerativa.
Il mio sogno era quello di fare prima o poi una esperienza in Africa.
Gli anni della specializzazione furono molto duri, non tanto dal punto di vista medico, quanto umano. Era appena scoppiata l’emergenza della infezione da HIV, non esistevano cure appropriate, i pazienti avevano per la maggior parte la mia età o poco più e molti di loro morivano. E’ stata una gavetta durata alcuni anni, molto dura, ma che mi ha aiutato a capire che cosa voglia dire mettere al servizio degli altri le proprie conoscenze.
Dopo alcuni anni di collaborazione con una ONG, con la quale seguivo alcuni progetti sulla TBC e sull’HIV in Romania, nel 1999 partii per l’Uganda, diretto a Kitgum, all’ospedale di St Joseph, gestito dalla stessa ONG.
Ricordo ancora adesso con emozione la prima volta che entrai in quell’ospedale. Allora però ebbi paura di essere inadeguato e di aver fatto un passo più lungo della mia gamba.
L’ospedale non aveva niente dell’ospedale italiano a cui ero abituato. Erano tanti cortili, dove si trovavano ammassate decine e decine di persone – prevalentemente donne – che nella maggior parte dei casi mi ignorarono o mi dedicarono un fugace sguardo, senza salutare o rispondere al mio saluto. E così fu per le prime settimane. Tra un cortile e l’altro si trovavano le cosiddette corsie, che altro non erano se non stanze più piccole o androni enormi a soffitto alto, con decine di letti. Lo sguardo dei malati era rassegnato e spento. Qualcuno di loro, più grave, era assistito da un familiare, solitamente donna.
Mi presentarono il personale sanitario. Rimasi colpito subito da due figure. La prima fu quella del cosiddetto Medical Assistant, una sorta di infermiere specializzato, che aveva anche il compito di visitare. Si chiamava Joseph. Non ero abituato a un ruolo come il suo, ma sembrava sapesse molto bene come muoversi e comandare. L’altra figura fu quella del collega africano che mi doveva dare le consegne. Il mio inglese era allora molto acerbo e scolastico, ma non fu questo il punto, ma la netta sensazione che non vedesse l’ora di andare via da quella specie di lazzaretto e di lasciarmi solo con le mie nuove responsabilità.

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