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Sudan, dalle donne la spinta che ha portato al cambiamento dopo 30 anni di regime

Se la rivolta in Sudan fosse identificabile con un colore non v’è dubbio che il rosa prevarrebbe su tutti gli altri. Come quello dell’alba che giovedì 11 aprile è sorta illuminando i volti delle tante donne che hanno animato le proteste, iniziate il 19 dicembre, per chiedere le dimissioni del presidente Omar Hassan al Bashir.  
Una mobilitazione potente, un fiume umano che si è inaspettatamente punteggiato di migliaia di minute figure gentili in thobe, una lunga striscia di tessuto e tipica veste sudanese quasi sempre in tinte sgargianti.
Dimostrazioni pacifiche represse nel sangue dalle forze di sicurezza del governo islamista al potere dal 1989, elemento che ha portato l’esercito a intervenire decretandone la caduta.

Una svolta attesa a lungo e caratterizzata da un elemento di novità assoluta, la significativa presenza femminile.
In un paese come il Sudan, dove osare di indossare un paio di pantaloni può costare 40 frustate, è una rivoluzione nella rivoluzione.  

Gran parte del merito della rimozione di al-Bashir va a loro, alle donne sudanesi, che hanno svolto un ruolo di primo piano nelle rivolte diventando protagoniste del movimento nato per rovesciare pacificamente un regime che da 30 anni opprimeva il proprio popolo.

Una su tutte l’immagine simbolo. Una foto iconica, divenuta virale sui social nel giro di poche ore, che ritraeva Alaa Salah, una studentessa di 22 anni che sul tettuccio di un’auto tra migliaia di persone intonava canti inneggianti alla ribellione.

A scattare la fotografia un’altra donna, l’attivista Lana Haroun che insieme a tante altre giovani, ma anche meno giovani, si erano radunate davanti al quartier generale dell’esercito a Khartoum, la capitale del Sudan, per chiedere a gran voce libertà, giustizia e democrazia. 

Avvolta in un lungo strato di tessuto bianco scintillante, come gli orecchini color oro che le illuminavano il viso, Alaa ha preso la scena dominando la folla di manifestanti, portando su un dito con aria di sfida intonando ‘thowra’, rivoluzione in arabo.

Nonostante avesse ricevuto minacce di morte, la 22enne ‘incoronata’ Khadara, regina nubiana delle proteste, ha continuato ad accusare sui social il regime di al-Bashir, prima, e a mettere in guardia dal nuovo Consiglio militare che lo aveva deposto, dopo, esortando i civili a non lasciarsi “ingannare dal colpo di stato” e a chiedere che non fosse un esponente delle forze armate a guidare il governo di transizione.

“Cantando quelle strofe non pensavo di diventare un simbolo, volevo solo imprimere forza al nostro manifestare” racconta la studentessa raggiunta via Twitter, dove ha aperto un suo profilo per continuare a lanciare i suoi messaggi a supporto della rivolta – Oggi voglio cogliere questa occasione per denunciare i diritti violati delle donne in Sudan e far sentire che siamo forti e in grado di essere alla pari degli uomini”.

Nonostante le intimidazioni e le vessazioni che le sudanesi affrontano quotidianamente, che vanno dal matrimonio forzato fin da giovanissime (l’età legale per sposarsi nel Paese è di 10 anni) alla violenza domestica, dalle molestie sessuali allo stupro, in migliaia sono scese in piazza anche per chiedere politiche di tutela e di protezione.

Le leggi attuali di ordine pubblico, basate sulla Sharia, sono estremamente restrittive in Sudan sia per quanto concerne l’abbigliamento, che per il comportamento e l’istruzione femminile. Norme che hanno portato a una oppressione inaccettabile e a punizioni disumane per le donne sudanesi succubi di un sistema maschilista e patriarcale. 

“Non possiamo più accettare che sia consentito legalmente di sposare delle bambine – racconta Amane Tahani, fondatrice dell’organizzazione non governativa per i diritti delle donne “Sudanese woman in action” – costrette a matrimoni con uomini molto più anziani senza il loro consenso. Come è intollerabile che lo stupro coniugale non sia punibile”.

Alaa, Lana e tutte le altre ‘ribelli’, che da Khartoum a Omdurman fino al Darfur hanno sfidato con coraggio i proiettili e i gas lacrimogeni, sono l’immagine migliore di questa battaglia per la libertà e la giustizia.

I diritti delle donne in Sudan sono stati più volte al centro di campagne internazionali, come quella partita dall’Italia lo scorso giugno sulla condanna a morte di una giovane costretta a sposarsi a 15 anni, Noura Hussein, arrestata e giudicata per aver ucciso il marito che cercava di violentarla.
Solo grazie alla mobilitazione (ndr promossa anche dall’autrice di questo articolo che oltre a essere giornalista è presidente della onlus Italians for Darfur, associazione che aveva lanciato la petizione su Change.org per chiedere la liberazione di Noura che ha raccolto oltre 1,8 milioni firme) la pena capitale è stata scongiurata e la sentenza ridimensionata. Noura sta scontando cinque anni di prigione. Non un verdetto giusto, ma la sua vita è salva.

Nonostante le repressioni di ogni loro diritto e violenze continue, le donne sudanesi sono state in prima linea nelle proteste un po’ ovunque nel Paese.
La percentuale femminile dei manifestanti scesi in strada, in particolare a Khartoum, ha raggiunto il 70 per cento. 
Il fermento a tinte rosa è partito, e ha avuto grande spazio, nelle organizzazioni giovanili della società civile, soprattutto sulla scia del movimento studentesco del 2012 ispiratosi alle primavere arabe. All’inizio del 2018 le studentesse dell’Università femminile di Ahfad a Omdurman si erano mobilitate contro le violenze subite all’interno del campus, subendo ritorsioni e finendo anche in carcere per “turbamento dell’ordine pubblico”.

“Siamo felici di aver dato un contributo così importante a questa rivolta -racconta soddisfatta Lana – ma non è ancora finita. Le persone non vogliono un consiglio militare di transizione. Il cambiamento non accadrà se viene permesso a chi faceva parte del regime di rimanere al potere dopo il colpo di stato. Vogliamo un consiglio civile per dirigere la transizione”. 
Dopo che i militari avevano annunciato la cacciata di Bashir, le donne sudanesi con gli altri dimostranti erano rimasti in piazza per festeggiare. Ma all’annuncio che a guidare il Consiglio militare sarebbe stato il ministro della Difesa sudanese Ahmed Awad Ibn Auf, la gioia si è trasformata in rabbia.
Legato a doppio filo all’ex presidente, che a febbraio lo aveva nominato suo vice, e ritenuto islamista Auf deve rispondere dell’accusa di essere stato il collegamento fra il passato governo e le  milizie ‘Jajaweed’, i cosiddetti ‘diavoli a cavallo’ responsabili delle atrocità perpetrate in Darfur, regione occidentale del Sudan insanguinata da un conflitto iniziato nel 2003 che ha causato oltre 300 mila vittime e 2 milioni e mezzo di sfollati.

L’opposizione e l’Associazione dei professionisti sudanesi avevano da subito dichiarato di non riconoscere l’ex ministro quale nuova guida del Paese e avevano annunciato che avrebbero proseguito le proteste nonostante il rovesciamento di Bashir.
La determinazione dei manifestanti aveva così portato, a poco più di 24 ore dalla sua designazione, alle sue dimissioni e al passaggio dell’incarico al generale Abdul Fatah al Burhan, nominato nuovo capo del Consiglio militare di transizione.
Luogotenente e ispettore delle Forze Armate, Burhan sembra avere un curriculum più  ‘pulito’ rispetto al predecessore e agli altri ufficiali delle forze armate, non essendo stato coinvolto in crimini di guerra né in mandati della Corte penale internazionale.
La sua apertura ai civili, per ora solo promessa, ha permesso l’avvio di un dialogo finalizzato alla nascita di un esecutivo, dopo la prima fase di transizione, senza la presenza di militari.
La speranza è che possa davvero crearsi un governo non influenzato dai generali e, chiedono le donne della rivoluzione, con una significativa e dignitosa presenza femminile.
Tra le figure più influenti della scena politica sudanese che potrebbero aspirare a un ruolo importante, Mariam al-Mahdi, figlia di Sadek al-Mahdi, il presidente democraticamente eletto nel 1986 e deposto da Bashir con il colpo di stato nel 1989 che lo portò al potere.
Avvocato e attivista politica, il mese scorso la Al Mahdi era stata arrestata e condannata a una settimana di carcere per aver partecipato a una manifestazione a Omdurman.
Che venga da lei o dagli altri simboli femminili di queste rivolte, il contributo delle donne alla creazione di un nuovo governo di speranza e di democrazia non potrà mancare.

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