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Congo, bimbi invalidi e morti nelle miniere: class action contro giganti del digitale

Era ora. Finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di squarciare il velo di ipocrisia che sporca anche le più sincere volontà di rivoluzione ecologica. Il nostro stile di vita insostenibile ha per decenni inquinato il mondo, surriscaldato il pianeta, messo a rischio il futuro stesso della specie umana.

E mentre i giovani dei Fridays for Future scendono in piazza per chiedere a gran voce che si inverta la rotta, la Cop25 fallisce miseramente. Serve un cambio di rotta subito, o sarà troppo tardi. Ce lo sentiamo ripetere in continuazione. Ma ci siamo mai domandati quale sia il costo di questo Green new deal?

Buona parte del cambiamento che ci è richiesto nel futuro prossimo riguarda la decarbonizzazione e la cessazione definitiva dell’utilizzo dei derivati del petrolio. E il passaggio obbligato è quello all’auto elettrica. Per questo, la domanda di cobalto è destinata a raddoppiare già entro la fine del prossimo anno.

Ma c’è un problema. Oltre la metà del cobalto viene dalla Repubblica democratica del Congo. Hanno proprio ragione quelli che dicono che le ricchezze del Congo sono la sua maledizione. Non è ancora in vigore la sofferta certificazione europea per tantalio, stagno, tungsteno e oro che si presenta questa nuova emergenza.

Ecco perché arriva come manna dal cielo la class action intentata contro i colossi del digitale da un pool di avvocati dei diritti umani, insieme a 14 famiglie congolesi che richiama e inchioda alle proprie responsabilità non solo i produttori, ma anche noi consumatori.

Congo, bimbi morti e rimasti paralizzati nelle miniere di cobalto: class action contro i giganti del digitale. “Rispondano delle vittime”
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Ne ho parlato con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia (che già nel 2016 aveva dedicato al tema un rapporto e un appello): “La notizia è solo apparentemente sorprendente anche se si tratta della prima causa del genere. Ma il motivo che ha spinto le famiglie congolesi ad adire le vie legali è del tutto legittimo: le aziende, che sono alla fine della catena di produzione, devono – almeno, dovrebbero – essere a conoscenza e vigilare su eventuali violazioni dei diritti umani che si verificano lungo tutti i passaggi precedenti. Il tema dello sfruttamento del lavoro minorile nell’estrazione di minerali preziosi per la realizzazione di beni di largo consumo non è affatto nuovo. Né è nuovo il principio che le aziende debbano rispondere della loro eventuale complicità in violazioni dei diritti umani, soprattutto se da quelle violazioni traggono profitto”.

Ben venga allora una causa che dà finalmente volto e voce alle vittime, all’ultimo anello delle catene produttive, mettendole sullo stesso piano degli anonimi colletti bianchi che spostano capitali con un click e che con un click scelgono costi e fornitori delle materie prime. È un’occasione d’oro. Non lasciamo sole queste famiglie. La causa intentata contro Apple, Google, Microsoft, Dell e Tesla riguarda tutti noi e il futuro del nostro pianeta.

Non possiamo, non possiamo più permetterci di costruire il nostro progresso sul sudore e talvolta sul sangue di minori solo perché senza un nome, lontani. Ora alcuni di loro hanno un volto. Nessun avanzamento può essere autentico se non è etico fin dalla radice. Per anni si è scritto, parlato, combattuto per la certificazione dei “minerali di sangue”.

A differenza del coltan, qui almeno non c’è di mezzo anche il finanziamento di qualche conflitto fomentato ad arte. Il cobalto viene per la maggior parte dal Katanga, regione meridionale della RdC, pacifica. Almeno per ora. Ma ciò non toglie che le condizioni di lavoro siano inumane e inaccettabili. Questa class action può essere il grimaldello per costringere l’Occidente a una presa di coscienza e a una certificazione del cobalto. Passo non rinviabile.

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