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Nigeria, Chimamanda e il femminismo di cui abbiamo bisogno

Se c’è un femminismo di cui abbiamo urgentemente bisogno è quello di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana che trascorre una parte significativa dell’anno negli Stati Uniti e che al tema ha dedicato riflessioni non solo molto interessanti ma anche autenticamente progressiste. Si è diffuso, infatti, nella nostra società un femminismo tossico, per nulla interessato alla crescita e all’avanzamento sociale delle donne ma unicamente alla conquista di posizioni individuali di potere, prestigio e ricchezza, in una riproposizione posticcia e pericolosa delle fratture sociali degli anni Settanta, con la differenza sostanziale che all’epoca furono posti al centro del dibattito pubblico i nuovi diritti da conquistare e le immani storture da combattere mentre oggi non si fa quasi mai menzione dei nuovi diritti da trasformare in realtà e delle immani storture tuttora esistenti contro cui battersi con convinzione.
Gli anni Settanta sono stati il decennio divorzio e dell’aborto, poi è venuta l’abolizione del delitto d’onore e si è sostanzialmente fatta strada l’idea che il matrimonio riparatore, oggi tanto caro a Erdoğan, fosse non solo una porcheria ma una condanna esistenziale per donne già costrette a patire la vergogna dello stupro e della sistematica violenza fisica. Insomma, conquiste essenziali e da presidiare con cura, dato che la stagione è quella che è e la jihad anti-femminista costituisce oggi un tratto unificante fra il terrorismo di matrice islamista e il fondamentalismo di matrice retrograda che sta avvelenando le società occidentali.
La Adichie, a tal proposito, fornisce un testimonianza preziosa, trattandosi di un’intellettuale dotata di una penna magnifica, in grado di scavare nelle pieghe dell’animo umano, di approfondire ogni singola questione e di offrirci una narrazione storica, spesso imperniata sulla memoria, di altissimo livello. Una scrittrice globale, abilissima nel descrivere, ad esempio, la barbarie della guerra del Biafra e le conseguenze che essa ebbe per il suo Paese o la sua condizione di donna dei due mondi, contraria a ogni pregiudizio, dunque spesso apolide e costretta a fare i conti con le difficoltà di far incontrare due culture così diverse.
È, tuttavia, sul femminismo che la Adichie dà il meglio di sé, prendendo per mano anche gli interlocutori più lontani e restituendo uno spaccato di bellezza, analisi e riflessione corale del quale non possiamo fare a meno, riaffermando il ruolo contemporaneo delle donne per la crescita equilibrata della società e invitando noi uomini a farci paladini di questa battaglia che non può e non deve trasformarsi in una stupida contrapposizione fra i sessi bensì diventare uno strumento di incontro e di progresso collettivo. Ed è soprattutto alle nuove generazioni che rivolge il proprio sguardo, affinché crescano libere e si ribellino a ogni forma di oppressione, imposizione, patriarcato, controllo e dominio disumano e antidemocratico, affinché il corpo femminile non sia mai più considerato alla stregua di un oggetto, affinché tutti comprendano che l’affermazione della donna e dei suoi diritti sia la più grande forma di difesa della democrazia alla quale siamo oggi chiamati.
Nell’oceano degli slogan, dei luoghi comuni, delle frasi fatte e delle manifestazioni insensate e dai tratti vagamente ferini, la nobile voce di Chimamanda si leva in difesa di un femminismo autentico, costruttivo, inclusivo, saggio e destinato a vincere, in quanto non solo non è aggressivo e non spaventa ma genera, al contrario, quel viaggio all’interno di sé che molti uomini, altrimenti, si rifiutano di compiere.
Non a caso, nella sua analisi complessiva la questione femminile si intreccia con il bisogno di autodeterminazione di un continente, la sua adorata Affica, troppo a lungo vittima di un colonialismo selvaggio che aveva nella conquista predatoria delle donne indigene uno dei propri punti di forza. La violazione sessuale, lo stupro, la compravendita dei corpi, la sottomissione, l’orrore delle descrizioni compiaciute e la ferocia tragica delle avventure machiste dei secoli dell’orrore hanno depredato l’Africa non solo dal punto di vista delle risorse materiali ma, più che mai, moralmente. E che sia oggi una donna africana, innamorata della sua cultura e delle sue tradizioni ma determinata a costruire ponti anziché muri, a lanciare questo grido e a portare avanti questa battaglia dai contorni universali, nell’anno in cui ricorre il sessantesimo anniversario della decolonizzazione e dell’inizio di un nuovo, maledetto percorso di sangue per quella terra splendida e martoriata, è la miglior garanzia che il discorso possa avere un seguito.
Leggere Chimamanda, studiarla, ammirarne la forza indomita e il coraggio della denuncia significa compiere un atto rivoluzionario. La rivoluzione gentile di cui questo pianeta non può più fare a meno.

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