vai al contenuto principale

Ammetto di non conoscere l’Africa. E mi dispiace

Ammetto di non conoscere l’Africa. Le mie nozioni risalgono alle pagine della letteratura coloniale e post-coloniale, da Karen Blixen a Ernest Hemingway a Nadine Gordimer. Autori di grande valore – fra cui due premi Nobel – che hanno scritto opere piene di suggestione e fascino. Ma raccontano un’Africa vista con gli occhi dell’Occidente. Occhi che appartengono a un mondo completamente diverso, che ne condiziona lo sguardo interponendo i suoi filtri culturali. La realtà ha un’apparenza di autenticità sempre mutevole quando rispecchia il filo dei pensieri che è la nostra mentalità a dipanare. Forte delle conoscenze e delle memorie che possiede, la mentalità acquisita ci restituisce la propria versione angolare del mondo, non il mondo nella sua innocente, ontologica essenza materiale. E la verità delle cose muta e rimane fatalmente un oggetto i cui contorni continuano a sfuggire alla piena definizione.

Sorridiamo, leggendo le istruzioni che lo scrittore keniota Binyavanga Wainaina dà ai futuri scrittori di cose africane:

Readers will be put off if you don’t mention the light in Africa. And sunsets, the African sunset is a must. It is always big and red. There is always a big sky. Wide empty spaces and game are critical—Africa is the Land of Wide Empty Spaces. When writing about the plight of flora and fauna, make sure you mention that Africa is overpopulated. When your main character is in a desert or jungle living with indigenous peoples (anybody short) it is okay to mention that Africa has been severely depopulated by Aids and War (use caps).

(Binyavanga Wainaina, How to Write about Africa, Granta 92, 2005).

Ma davvero siamo in grado di usare criteri differenti per raccontare l’Africa? Sappiamo guardarla con occhi trasparenti, liberi da qualsiasi pregiudizio, seppur benevolo? Soprattutto, sappiamo parlarne senza fare alcuna concessione a un conformismo culturale che indulge alla presunzione di superiorità?

Ne è un corollario la convinzione che i problemi dell’Africa possano essere risolti esportando i nostri modelli politici, economici e sociali e convincendo della loro bontà popolazioni di tutt’altra tradizione etnica, appartenenti a una sfera culturale del tutto distante se non incompatibile.  Anche quando siano le migliori intenzioni a suggerirci un atteggiamento del genere – magari per affrontare situazioni drammatiche – il principio resta invariabilmente lo stesso: la presunzione che tocca a noi decidere quali sono le soluzioni migliori per gli altri. Per poi stupirci quando ciò non avviene, come spesso accade.

Un corollario analogo sono le elargizioni di denaro fini a se stesse.Atti di generosità che, in assenza d’un piano per risolvere alla radice il problema che li sollecita, servono solo all’autocompiacimento personale di chi li fa e si sente, così, autorizzato a dimenticarsene.

 

Le cronache ci hanno abituato all’arrivo continuo di migranti dall’Africa. Arrivano sulle nostre coste alla ricerca d’una vita migliore. Persone di cui non conosciamo la cultura, la lingua, la mentalità e i costumi. La reazione istintiva, per tutti, è la diffidenza, se non la paura. O la pietà, immaginando le sofferenze patite. Sentimenti ricambiati da una gamma di comportamenti che alimentano il malessere sociale. Perché il difetto di conoscenza è reciproco. Chi parte per raggiungere l’Europa ha una conoscenza non sempre giusta della vita che vi si svolge e delle condizioni cui bisogna sottoporsi per inserirsi nella sfera sociale. Le fonti dalle quali traggono informazioni sono quelle generiche, accessibili a tutti – da internet ai social, dai giornali alla televisione – ma non del tutto attendibili senza revisione alcuna. C’è differenza fra il Paese reclamizzato per interessi di varia natura e il Paese reale, vissuto quotidianamente dalla gente.

È un solco che va colmato all’origine, se si vuole che tutto defluisca ordinatamente sulle sponde del Mediterraneo, e l’Africa ai nostri confini non sia più una ragione di inquietudine per l’Italia e l’Europa.

Un programma ben impostato di contatti culturali gestito con i Paesi africani mediante le Rappresentanze diplomatiche all’estero, le Istituzioni, le Scuole e le Università, le Aziende, gli Enti territoriali idonei e le Organizzazioni presenti nei territori è,certamente, un buon avvio per un processo che favorisca occasionidi incontro e confronto umano non imposte da drammatiche emergenze ma affidate all’intelligenza e alla volontà delle persone. Che metta giovani e adulti in grado di conoscersi e sperimentare dimensioni di vita diverse dalle proprie, misurandone le rispettive condizioni e apprezzando le qualità che ognuna possiede. Contribuendo ad eliminare le barriere più insidiose da abbattere, che sono quelle psicologiche. Rammentando che la curiosità è la chiave che salva dalla paura, destinata a scomparire appena tale istinto primordiale – che ha permesso all’umanità di raggiungere i traguardi cui è arrivata – riesce a prevalere esercitando la sua spinta.

Programmare – con iniziative che coinvolgano più soggetti pubblici e privati – periodi di tirocinio formativo e di apprendistato- preceduti da una formazione tecnica e culturale erogata nei rispettivi Paesi da chi la offre poi nel luogo di destinazione – come progetto di scambio fra Italia e Africa è un’altra maniera perconsentire alle persone di conoscersi nel modo migliore: ossia, lavorando insieme e condividendo, per un certo periodo, la stessa vita. Istituendo, in aggiunta, un portfolio personale, con validità internazionale, fatto di esperienze formative maturate, che costituisca un valido lasciapassare per future scelte professionali e di collocazione lavorativa, nel proprio Paese o in altri.

Una sorta di Erasmus degli studi, delle professioni, dei mestieri e delle attività produttive, riservato all’Africa – rivolto a giovani e adulti e differenziato per aree, interessi, tipologie e obiettivi – chefunga da finestra alla quale due mondi culturalmente diversi possano affacciarsi per guardarsi, conoscersi e scegliere percorsi e piani di vita accettabili per entrambi in modo responsabile, senza entrare in collisione. Con la consapevolezza di quale siano le condizioni di vita e le regole sociali vigenti alle quali uniformarsi durante il periodo della loro, breve o lunga, permanenza. Alla cui realizzazione possano concorrere soggetti sia pubblici che privati, nonché associazioni riconosciute, che siano in grado di far incrociare fattivamente domanda e offerta, affinché le iniziativenon siano prive di contenuti e finiscano per restare solo atti formali.

È un genere di collaborazione che dovrebbe, naturalmente, preludere all’apertura di regolari canali di transito da una parte e dall’altra per quanti ne fanno motivata richiesta, avendone i requisiti. Ma che consentirebbe, in buona misura, di trasformare un fenomeno epocale, per certi versi drammatico, in un piano di collocazione e ricollocazione che si integra con i progetti di sviluppo di ogni Paese e le esigenze di sicurezza sociale e tutela dei diritti umani, che sono i due temi oggi più avvertiti.

 

Torna su